Volpe 132. Missione senza ritorno

2 marzo 1994.
Il vento non si muove. Le onde, nemmeno. Il cielo, pulito come uno specchio.
Nessuna foschia, nessun segnale, solo un silenzio che sembra aspettare.
Alle 18.45, un elicottero della Guardia di Finanza si alza in volo dalla base di Elmas. Sulla carta è una missione di routine ma alle 19:18 un punto sul radar si spegne. Nessun allarme, nessuna trasmissione.
L’elicottero Augusta A-109, nome in codice Volpe 132, non cade: scompare. La mattina del 4 marzo, un altro elicottero individua rottami galleggianti. Pezzi, frammenti. Tracce sbagliate in posti sbagliati.
Qualche settimana più tardi, in un capannone abbandonato, spunta un secondo elicottero. Identico, smontato, intestato a una società fantasma. Armadietti vuoti, nomi cancellati, uno dopo l’altro. Qualcuno sta facendo sparire tutto nel silenzio, e chi sa qualcosa resta inascoltato.
Sono passati trent’anni. Ma quel nome in codice, Volpe 132, vibra ancora nell’aria come un segnale d’allarme mai disattivato. Un ronzio sordo che infastidisce la memoria.

Coordinate per l’oblio

Alle 14 del 2 marzo del 1994, nel silenzio ovattato della sezione aerea della Guardia di Finanza di Elmas, scatta l’ordine. Una missione di ricognizione costiera notturna, destinata alla repressione di traffici illeciti lungo il Golfo degli Angeli. Il piano è chiaro: decollare da Elmas, sorvolare il Poetto, virare verso Capo Carbonara. Poi rientrare alla base. Un’operazione di routine, almeno sulla carta. A pilotare l’elicottero Agusta A-109A Mk.II Hirundo, nome in codice Volpe 132, ci sono due uomini esperti: il maresciallo Gianfranco Deriu, 41, uomo di mare e di cielo, e Il brigadiere Fabrizio Sedda, 28anni, scrupoloso, silenzioso, rispettato. Uno ai comandi, l’altro tiene i contatti radio.
Alle 18:44 l’elicottero si stacca dal suolo dell’aeroporto militare “Mario Mameli” di Cagliari-Elmas. contemporaneamente, salpa anche il guardacoste G63 Colombina, classe Meattini, diretto a est oltre Capo Carbonara. Il cielo è troppo calmo per immaginare una fine. È la classica manovra combinata: sorvolo aereo e pattugliamento navale. Poco dopo il decollo, il Volpe 132 contatta il controllo aereo di Cagliari Avvicinamento, dà la rotta e la quota. Alle 19:07, il Volpe 132 comunica la sua posizione: ha appena raggiunto Capo Carbonara e si dirige verso sud, “dei bersagli segnalati dai radar” Alle 19:15, sorvola la motovedetta Colombina e si coordina con l’equipaggio: gli aggiornamenti saranno ogni 5 miglia. Tutto è sotto controllo, cosi sembra.

La rotta fantasma

Ma alle 19.18, qualcosa si spezza e con lui ogni certezza. Poi un lampo, una virata brusca, il radar dell’aeroporto di Elmas registra un cambio di rotta verso nord-ovest, in direzione del massiccio dei Sette Fratelli. Poi: silenzio. Alle 19:18, l’elicottero si spegne, il cielo sembra averlo inghiottito. Alle 19.52, l’elicottero viene dato per disperso. Le ricerche partono, ma è tardi. Il traghetto Torres della Tirrenia, già sorvolato dall’elicottero alle 18:58, capta le comunicazioni radio e invita la Colombina, ancora in silenzio, a dirigersi verso sud per cercare l’elicottero. Ma la motovedetta, per ragioni mai chiarite, sta navigando a nord. E mentre in cielo si cerca invano un segnale, a terra accade qualcosa di inspiegabile: gli armadietti di Sedda e Deriu nella caserma di Elmas vengono forzati la stessa sera della scomparsa. La spiegazione ufficiale? “Si cercano le pistole di servizio.”
Ma chi ha autorizzato l’accesso? E perché con così tanta fretta, prima ancora che il volo fosse dichiarato disperso?

Due uomini spariti nel cielo

Tra il 3 e il 6 marzo, frammenti del Volpe 132 vengono ritrovati: pezzi della fusoliera, due portelloni, parte dell’elica e il casco di Fabrizio Sedda.
Ma il ritrovamento avviene a 40 chilometri di distanza dal punto registrato dai radar, nella direzione opposta a quella comunicata via radio: a nord, nel mare davanti allo stagno di Feraxi, zona interdetta alla navigazione per esercitazioni militari. I corpi dei due militari, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, non verranno mai ritrovati. Come se quel volo non avesse solo inghiottito l’elicottero, ma anche loro.
Testimoni raccontano di un bagliore nel cielo e poi una fiammata. E poi un mercantile, ancorato proprio li, la Lucina, che scompare proprio la stessa sera, proprio come Volpe 132. Poche settimane dopo, in un hangar a Quartu, viene ritrovato un secondo elicottero, identico al Volpe 132, smontato pezzo per pezzo. Appartiene a una società di comodo, registrata a Londra. C’è un nesso tra i due fatti? Mai chiarito.

Il mercantile degli orrori

C’è una sagoma all’orizzonte. Un’ombra lunga sul mare.
Si chiama Lucina, è un mercantile, e in quei giorni è alla fonda davanti a Capo Ferrato, proprio nella zona in cui Volpe 132 si spegne per sempre. Quattro uomini, tra cui Giovanni Utzeri e Luigi Marini vedono un elicottero esplodere in volo proprio dove si trova la nave.
Tutti e quattro dicono che, dopo l’esplosione, la nave salpa in fretta e sparisce all’orizzonte.
È solo suggestione?
Due mesi dopo, la risposta arriva da lontano.
6 luglio 1994. Porto di Djendjen, Algeria.
Il sole si è appena alzato quando l’odore del sangue comincia a confondersi con quello del grano. Non è una metafora. È il carico ufficiale della Lucina, mercantile battente bandiera maltese, noleggiato dall’allora presidente del Cagliari, l’imprenditore del grano Massimo Cellino. Ma in quelle stive, a più di mille chilometri da Cagliari e a 4 mesi esatti dalla scomparsa del Volpe 132, qualcosa puzza di marcio. E non è solo il grano.
Sette uomini dell’equipaggio, sette corpi riversi sul ponte, tutti sgozzati, da un commando di estremisti islamici. E’ un massacro.
Le gole sono tagliate di netto, alcuni hanno i polsi spezzati, altri sono stati colpiti alle spalle. Il sangue impregna le tavole di legno, i documenti di bordo sono scomparsi, e la radio è stata distrutta. Sul diario di bordo manca ogni nota delle ultime ore.
Silenzi troppo perfetti per essere casuali. La Lucina era ferma da 27 giorni, bloccata a Djendjen. Un limbo che sa di trappola.

"Se esco mi sparano"

Nessuno sa spiegare perché quella nave resti ferma così a lungo. Nessuno sa che fine abbiano fatto 600 tonnellate del carico dichiarato. Perché sono sparite.
E in quel vuoto pesano sospetti pesantissimi: armi? Scorie radioattive? Qualcosa che non poteva essere sdoganato, qualcosa che doveva sparire nel nulla. La tensione cresce giorno dopo giorno. Il vice comandante Antonio Scotto Lavina, sente che la nave è diventata un bersaglio, telefona a casa, il 5 luglio 1994, un giorno prima del massacro, parla con la figlia sedicenne, ma la voce è rotta, spaventata, quasi rotta dal panico:
“Bambina mia, non posso più parlare con te. Se metto fuori il naso dalla nave mi sparano.”
È l’ultimo contatto. Il giorno dopo, verrà sgozzato insieme agli altri sei membri dell’equipaggio.
Ma chi avrebbe dovuto sparare? Di chi avevano paura?
Se davvero si temeva un attacco di fondamentalisti islamici, perché il Lucina era ormeggiato al molo con le passerelle abbassate, violando tutte le disposizioni di sicurezza emanate dall’ambasciata italiana ad Algeri, che obbligavano le navi a rimanere a 500 metri dalla costa durante la notte? Era davvero solo negligenza?

Il mare sa chi è salito a bordo

E poi c’è la testimonianza agghiacciante di Domenico Schiano di Cola: “In quel porto non poteva entrare neppure uno spillo. I militari controllavano tutto. Non mi risulta che siano state trovate tracce di effrazione, né segni di lotta.”
Come a dire che i marinai non si sono difesi. Come a dire che conoscevano i loro carnefici. Un dettaglio che frantuma la narrazione ufficiale, secondo cui la strage sarebbe stata opera di un commando del Gia, il gruppo armato islamico che in quegli anni terrorizzava l’Algeria.
Ma allora chi li ha uccisi? E perché? A rendere ancora più inquietante il quadro, ci sono coincidenze troppo pesanti per essere ignorate. Solo quattro mesi prima, il 21 marzo 1994, viene assassinata a Mogadiscio la giornalista Ilaria Alpi, che stava indagando proprio su traffici di armi e scorie tossiche legati a navi italiane.
E pochi mesi prima ancora, nel novembre del 1993, era morto misteriosamente a Mogadiscio Vincenzo Li Causi, maresciallo del Sismi, responsabile del centro Scorpione di Gladio a Trapani e amico stretto di Ilaria Alpi. Tutti intrecci. Tutti fili. Tutti caduti nel sangue.
E la Lucina, da Cagliari al mare d’Algeria, sembra essere un nodo centrale. Un buco nero che inghiotte uomini, carichi, radio, verità. Una trappola galleggiante.
Un segreto troppo ingombrante, da far affondare nel silenzio.
La Lucina, quella stessa nave, era ancorata al largo di Capo Ferrato il 2 marzo 1994, la notte in cui il Volpe 132 svanisce nel nulla.

Buchi neri

Nel 2011, a 17 anni dalla strage, la Procura di Cagliari riapre il caso, ipotizzando omicidio volontario plurimo. Ma i documenti mancano, i verbali sono incompleti .Troppe coincidenze. Troppi buchi neri. La Lucina sembra essere il filo conduttore di un’operazione che affonda tra traffici illeciti, coperture internazionali e forse, depistaggi.
Un filo rosso che passa da Feraxi a Djendjen, dall’esplosione dell’elicottero alla strage dei marinai.
Ma i documenti sono incompleti, molte intercettazioni sono andate perse, e la relazione militare sul Volpe 132 è ancora coperta da segreto di Stato Anche su questa strage, la verità si perde in un oceano troppo vasto, troppo profondo, troppo custodito. Perché chi sa, tace. E chi parla, muore.

Un missile nessuna guerra

C’è un momento, nel buio, in cui l’aria si tende e qualcosa cambia.
Non è visibile. Non è udibile. Ma si sente, è il momento in cui il cielo diventa complice, un buco nero in mezzo al blu, Volpe 132 scompare. Ma quel buio, col tempo, inizia a parlare. È il Politecnico di Torino, anni dopo, a dirlo chiaramente: il Volpe 132 non è precipitato. È esploso in volo, a bassa quota, tra le onde davanti a Feraxi. Una deflagrazione interna, repentina. Un lampo.Non è stato un guasto e non è stato il caso. Secondo i periti, si è trattato di un proiettile tracciante o di una munizione antiaerea, che ha colpito un serbatoio ausiliario. I vapori, a contatto con il calore, hanno fatto il resto. L’elicottero è diventato un’esplosione sospesa, un rottame infuocato che è caduto in mare senza lasciare neanche un mayday.
E allora affiora l’ipotesi che fa tremare: missile.
Un collaboratore di giustizia, sentito nel 1997, riferisce che l’elicottero fu abbattuto da un missile a corto raggio, forse partito da una nave cargo in rotta clandestina tra la Corsica e la Sardegna.
Un ex ufficiale del SISMI aggiunge che l’elicottero potrebbe aver avvistato una consegna illecita in mare e sia stato abbattuto per non farla arrivare a terra. E poi c’è la pista che conduce all’inferno: la strage della Lucina.
Volpe 132 vede qualcosa che non doveva vedere.
Parte una manovra d’attacco. La missione si spegne. Poi, quattro mesi dopo, vengono cancellate le tracce del mandante: la Lucina diventa un cimitero sul mare.

prova
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