A Sassari l’ultima rosa bianca per Ellen Giles

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Sassari, gennaio 1914. L’inverno colpisce senza preavviso, come uno schiaffo in pieno volto. Le strade sono umide, i selciati lucidi di pioggia. I palazzi ottocenteschi si ergono severi, grigi, intrisi di silenzi. Dalle persiane filtra appena un chiarore fioco. È una città trattenuta, prudente, che osserva. È un giorno qualunque, eppure qualcosa non torna. Al civico 87 di via Roma, in un appartamento elegante, una finestra resta socchiusa più del solito, il camino è ancora acceso. Una lampada illumina un angolo del salotto, come in attesa di qualcuno che non rientrerà. Lì dentro, tra appunti sparsi, valigie ancora da chiudere e il profumo lontano del tè alla cannella, ha vissuto una giovane americana: esploratrice, fotografa, antropologa. Una donna difficile da definire e impossibile da contenere. Sassari, la Sassari del primo Novecento, per lei non era ancora pronta. Questa è la storia di Ellen Rose Giles.

Il corsetto, la pistola , il gatto

15 gennaio 1914.
La pioggia picchietta sui vetri di via Roma. È una notte d’inverno a Sassari, e l’aria sa di legna bruciata e di finestre chiuse frettolosamente. Le strade sono deserte. L’unica luce viva arriva dal primo piano del civico 87. È fievole, gialla, tremolante. Il camino è acceso, una fiamma ancora arde, piccola, caparbia. E in quella stanza immobile, non c’è nulla di innocente. La porta è socchiusa, la domestica entra, fa due passi, poi si blocca. Ellen è lì, seduta su una poltrona di velluto verde, il busto reclinato, il viso pallido, le labbra chiuse. Una mano poggia sul bracciolo, l’altra scivolata sul grembo. È vestita con cura. Intorno a lei, carte sparse, libri aperti, un odore sottile di cera e di fumo. Ellen non si muove. Il medico arriva in fretta, si avvicina, tocca il polso. In un attimo si irrigidisce. Un foro, piccolo e netto, proprio sul petto. Il cuore trafitto da un proiettile. Ma il corsetto non è bucato. È immacolato. E dentro, tra le stecche di balena e la fodera, sono nascoste banconote piegate con ordine . Non c’è sangue in vista, nessun’arma in mano, solo una pistola, poggiata per terra, accanto alla poltrona, appartiene a Ellen. Sembra un teatro , una messinscena. I carabinieri arrivano tardi e si muovono come dentro una casa che non vogliono davvero guardare. Nessun segno d’effrazione, nessun biglietto d’addio. Nessun testimone, tranne il gatto.

Le origini di una ribelle

Philadelphia, 1874. La nascita di Ellen Rose Giles è già fuori dalle righe. Figlia di George Giles, un imprenditore edile tra i più in vista della costa Est, e di Anna Rose Mary Main, pittrice e viaggiatrice, Ellen cresce in una casa piena di mappe e libri scritti in lingue lontane. Il suo mondo, fin da bambina, è fatto di valigie, porti, quaderni di schizzi e biglietti per l’Europa. Con la sorella maggiore e la madre, Ellen attraversa l’oceano più volte. Firenze è una seconda casa, la nonna le porta nei musei come altre portano i bambini al parco. A tredici anni, Ellen viene iscritta a una prestigiosa scuola d’arte di Philadelphia. Ma non le basta. Non le basta mai. Nel 1898, si laurea in filosofia al Bryn Mawr College, un’università per donne all’avanguardia, un faro per le giovani menti americane. In quelle stesse aule studia anche Georgiana Goddard King, tre anni più grande di lei, futura luminare delle arti. Diventano amiche, compagne di pensiero e di coraggio. Due donne straordinarie, visionarie, che si spalleggiano, si ispirano, si rincorrono da un continente all’altro.

La fotocamera al collo, il taccuino in tasca

Dopo la laurea, Ellen parte. Berlino prima, Parigi poi. Studia alla Sorbona, ottiene una seconda laurea, sempre in filosofia. Traduce dal greco, dal latino, dalle lingue babilonesi. Parla inglese, francese, italiano, spagnolo, tedesco. Non ha tempo per convenzioni, non ha voglia di inchinarsi. Il suo carattere è affilato: non si sposa, non si sistema. Scrive, osserva, viaggia. Con la madre, compagna inseparabile, visita l’Oriente, l’Africa, l’Australia. Ma è la Sardegna a colpirla nel profondo. Lì c’è qualcosa che la chiama. Una terra ruvida, antica, difficile, una terra che in fondo le assomiglia, impara il sardo come se l’avesse sempre avuto in bocca. Nel 1906, madre e figlia prendono in affitto un appartamento in via Roma, a Sassari. Ma non sono turiste, Ellen è in missione. In America ha letto ogni libro sull’isola. Si è fatta un piano preciso: documentare riti funebri, usanze, leggende, studiare da vicino ciò che il continente ignora. Va a Nuoro, ci resta 15 mesi. Dorme nei villaggi tra i pastori, assiste a funerali all’alba, parla con le donne, cavalca di notte da sola. La popolazione non sa come prenderla. È straniera, è donna, è libera. Troppo libera. Fa fotografie, prende appunti, esce a cavallo con i pastori, anche da sola. Si racconta che una notte d’inverno, con la neve alta un palmo, sia stata vista partire verso la montagna solo per assistere a una sepoltura nelle prime ore. Macabra? Forse. Audace? Sicuramente.

I banditi, il Supramonte e l’ultima verità

Nel 1908, la rivista “La Donna” scrive: “Una signorina americana che si aggira a tutte le ore a piedi o sui carri, interrogando uomini, donne e bambini nei paesi più remoti, nelle ore più strane del giorno e della notte.” Sembra una spia, invece è solo una donna che vuole capire.
Ellen studia e intanto scrive per le riviste americane. Sassari diventa la sua seconda casa, sua madre è con lei. Nel 1913, una rivista americana le commissiona un reportage sul banditismo sardo. Ellen parte di nuovo, risale nel Supramonte, ritrova i contatti del tempo. Raggiunge il covo dei fratelli Corraine, famosi latitanti. Li incontra e prende appunti. Forse, li fotografa. Forse scopre qualcosa che non doveva. Terminata la sua missione Ellen decide di lasciare la Sardegna, ma qualcosa è cambiato.

Nessuno indaghi, per favore

La prima a parlare è la pioggia. Il medico legale viene ignorato. Eppure è proprio lui, il primo a sollevare i dubbi dicendo che la ferita è netta, Ma gli abiti sono intatti. Il proiettile ha colpito il cuore, Ma non ha bucato il corsetto. E questo è impossibile. Ma ai verbali basta poco, una firma, una parola: suicidio.
Nel frattempo, la notizia inizia a correre. I giornali locali scrivono: signorina americana si toglie la vita. Crisi nervosa, solitudine, dipendenza da morfina. Qualcuno sussurra di litigi mai confermati con la madre. Si tira in ballo la “vita bizzarra” della straniera, le sue stranezze, i suoi contatti con ambienti poco raccomandabili.

Il fascicolo scomparso

Ma nessuno parla della pistola. Nessuno si interroga sulla posizione del corpo. Nessuno cita il disordine nell’appartamento, i soldi, le carte. Nessuno cerca la verità, solo una conclusione comoda. Intanto il 17 gennaio, oltreoceano, i giornali americani raccontano un’altra storia. “Foul play suspected.” Il New York Times, il Philadelphia Enquirer, il Washington Post. Tutti avanzano l’ipotesi di omicidio. Raccontano di un possibile tentativo di insabbiamento. Alcuni riportano addirittura che le autorità italiane avrebbero ordinato la riesumazione del cadavere. Nessuno lo conferma, nessuno lo smentisce. A Sassari, invece, tutto si spegne. La città si chiude, la polizia brancola nel buio. Ma è un buio comodo, selettivo. I documenti iniziano a sparire: il verbale dei carabinieri, il fascicolo del giudice istruttore, il testamento in cui Ellen lasciava tutto alla madre, i suoi taccuini, le copie dei suoi articoli. Tutto svanito. Come se qualcuno stesse cancellando non solo la sua morte, ma la sua intera esistenza. Il 31 gennaio 1914, a soli sedici giorni dal ritrovamento, il caso viene archiviato. La dicitura è tanto inquietante quanto rivelatrice: “Sospetto suicidio”. Eppure, nonostante i documenti spariti, nonostante l’indifferenza delle istituzioni, ci sono cose che restano. Le incongruenze, le ombre, Il rumore del colpo che nessuno ha sentito. La brace ancora viva. La pistola troppo pulita.

La donna che parlava troppe lingue

Ellen Giles non è una viaggiatrice come le altre. Non prende appunti per raccontare storie da salotto, non fotografa per stupire con cartoline esotiche. Lei studia.La sua mente è affilata come il filo di un rasoio, e la sua curiosità è pericolosa. E’ una testimone, e in una terra come la Sardegna del 1914, questo la rende scomoda. Parla il sardo come una sarda. Ellen ha memoria. È un archivio ambulante. Ha taccuini, lettere, appunti. E ha anche una rete di contatti: in Sardegna, in Europa, negli Stati Uniti. Nessuno sa esattamente cosa sa. E proprio questo la rende pericolosa. Le ipotesi si moltiplicano. Alcuni parlano di un nobile sassarese coinvolto. Un uomo importante, rispettato, che avrebbe avuto con Ellen una relazione riservata. Altri invece parlano del suo reportage, dei Corraine, di quel viaggio nel Supramonte, di ciò che vide, che scopri e che non fece in tempo a pubblicare. E poi ci sono gli articoli, quei testi mai pubblicati, quelle bozze sparite. Alla fine, resta solo una certezza: in quella stanza, davanti alla stufa, non c’è solo un corpo. C’è una donna che ha visto, sentito e forse scritto più di quanto dovesse. Ellen parlava troppo e qualcuno ha deciso che doveva smettere.

La rosa bianca

Il tempo passa ma non cancella.
Ellen Giles viene sepolta in fretta, senza processioni e senza salmi nel cimitero di Sassari.
Per decenni la sua tomba resta li, dimenticata. Nessuno la cerca, nessuno la racconta. Fino a quando qualcosa cambia. Quando L’Associazione Storica Sassarese guidata da Alberto Mario Pintus e Maria Giovanna Cugia, pubblica la prima biografia ufficiale di Ellen, il silenzio si interrompe.
Da quel giorno, ogni settimana, una rosa bianca viene deposta sulla sua tomba. Nessun nome, nessuna firma. Solo un fiore. Nel frattempo, l’associazione continua a cercare. Scava tra archivi dimenticati, recupera articoli americani, ricostruisce pezzi della sua vita perduta. E compie un gesto semplice ma potentissimo: il restauro del loculo che custodisce i suoi resti. È un’operazione di giustizia silenziosa.
Una risposta, tardiva ma potente, a un’archiviazione frettolosa.
Un modo per dire: Ellen è esistita. E la sua storia merita di essere raccontata. Nemmeno l’università americana: Bryn
Mawr dimentica. Sul sito dell’ateneo, ancora oggi, accanto al suo nome, compare una frase semplice. Ma definitiva: “Morta assassinata in Sardegna nel 1914.” Intanto, ogni settimana, sulla sua tomba, la rosa bianca arriva.

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