Fine vita, tra dignità e responsabilità: il professor Castello sulla proposta Todde

Giuseppe Castello

“La vita non si possiede, si custodisce”: per il docente di bioetica non serve una legislazione per la morte ma leggi ispirate a princìpi universali, capaci di proteggere anche i più fragili.
Con la proposta presentata dalla Regione Sardegna per regolamentare il suicidio medicalmente assistito, il dibattito sul fine vita torna al centro dell’agenda politica. Il testo, sostenuto dalla presidente Alessandra Todde, si inserisce nel solco aperto dalla Toscana e si propone di dare una cornice normativa regionale a un tema rimasto irrisolto a livello nazionale, nonostante la storica sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale.
Tuttavia, accanto agli entusiasmi per una maggiore libertà individuale, emergono anche voci di cautela. Una di queste è quella del professor Giuseppe Castello, medico e docente di Bioetica presso la Pontificia Facoltà Teologica di Cagliari, che invita a una riflessione profonda sul significato di vita, libertà e dignità. «Su temi come vita e morte, non possiamo affidarci solo al diritto positivo o alle esigenze del momento. Dobbiamo partire da una domanda più radicale: che cosa significa davvero dignità, e cosa vuol dire tutelarla fino alla fine?»

Due princìpi, un equilibrio necessario

Castello non mette in discussione il valore dell’autodeterminazione, ma avverte del rischio di assolutizzarla, perdendo di vista il principio – anch’esso inviolabile – della tutela della vita. «Autodeterminazione e diritto alla vita sono due princìpi inviolabili. Significa che o stanno insieme o non stanno. Non è questione di bilanciarli, ma di tenerli insieme: senza la vita non c’è autodeterminazione. È su questo che si fonda ogni società pluralista. Un principio costituzionale deve essere fondato sui valori universali. È evidente che una legge o un dispositivo costituzionale che ne vìola uno a discapito dell’altro finisce per avere dei fondamenti ontologici veramente deboli e di risultare alla fine contro l’uomo e contro la libertà»

Un quadro normativo frammentato

La proposta sarda, oggi in esame nelle commissioni regionali, segue il modello della legge toscana, che ha regolato il suicidio assistito a livello locale sulla base dell’interpretazione della sentenza 242/2019. In quella decisione, la Corte aveva stabilito che non è punibile chi agevola il suicidio di una persona in determinate condizioni – tra cui sofferenza irreversibile e dipendenza da trattamenti di sostegno vitale – purché siano rispettate garanzie procedurali e valutazioni mediche. Anche a questo proposito, Castello però riporta la questione alle sue radici. Egli non ritiene eticamente fondato che uno Stato possa esercitare il potere di vita o di morte sui cittadini o che possa permettere che alcuni cittadini possano esercitarlo su altri o su se stessi: da questo punto di vista legge regionale o nazionale non fa differenza se vanno contro la vita e la libertà. «Se c’è un appunto da fare alla proposta di legge regionale è che si pone al di fuori della cornice disegnata dalla sentenza della Corte costituzionale, pur anch’essa da me e da tanti non condivisa. La sentenza della Consulta infatti stabilisce “soltanto” la non punibilità del reato di aiuto al suicidio in certe condizioni patologiche, mentre la proposta di legge regionale si spinge ben oltre, perché introduce l’obbligo per il sistema sanitario regionale di fornire sia il personale sanitario – che in tal modo non potrebbe sottrarsi -, che i mezzi per le procedure di attuazione del suicidio».

Fragilità e solitudine: il nodo delle palliative

Per il docente, il ruolo dello Stato non è quello di sancire il diritto alla morte, ma di proteggere chi si trova nelle condizioni di maggiore fragilità. «Uno Stato davvero attento alla libertà dei suoi cittadini è quello che sa prendersi cura anche quando una persona non ha più la forza di difendere sé stessa». In questo senso, Castello esprime preoccupazione per l’idea che la morte possa essere proposta – anche solo implicitamente – come soluzione a sofferenze che con le giuste risorse potrebbero essere affrontate in altri modi. Il riferimento è alla rete delle cure palliative, ancora oggi disomogenea sul territorio nazionale, soprattutto per quanto riguarda l’assistenza domiciliare. Un fronte che, secondo Castello, meriterebbe investimenti strutturali. «Una società che investe davvero sulle cure palliative dimostra di credere fino in fondo nella dignità del vivere, che non può mai essere persa neanche nei momenti più duri.»

Lo Stato come garante della vulnerabilità

Molti pazienti, osserva Castello, arrivano a chiedere di morire perché non trovano un’alternativa dignitosa, non perché lo vogliano davvero. «Spesso il desiderio di morire nasce dal sentirsi un peso, dall’essere abbandonati o non curati. Prima di parlare di scelta, dovremmo chiederci: abbiamo davvero fatto tutto il possibile per offrire un’alternativa concreta? Una legge che disciplina il suicidio in caso di malattia non fa che favorire nella mentalità comune la percezione che la vita valga solo se sani. E questo toglie molto alla vita dei singoli e della società».

Un confronto necessario

Il professore non nega la complessità del tema, né la legittimità del confronto politico e culturale. Ma invita a condurlo con rispetto e responsabilità, tenendo conto della vulnerabilità delle persone coinvolte «Nessuno di noi si è dato la vita. Affermare che la vita non è in nostro possesso permette di intravedere un senso al dolore e alla sofferenza, e aggiunge valore ed energia a tutto quello che può permettere di affrontarli. Che senso avrebbe la ricerca scientifica se non quello di superare le difficoltà e gli ostacoli alla vita e alla libertà che affliggono l’uomo di ogni tempo? Come può essere ragionevolmente fondata l’eliminazione delle sofferenze attraverso l’annullamento del sofferente?»

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