L’uomo che sapeva troppo: non ha una tomba Gianfranco Manuella

Foto di giornale all’epoca della sparizione di Gianfranco Manuella

Cagliari, 22 aprile 1981. Il mare è calmo, come se non sapesse. O come se sapesse tutto.
Cagliari si sveglia lenta, avvolta in quella luce bianca che confonde i pensieri. È un mercoledì qualsiasi, uno di quei giorni che la cronaca dimentica, ma che la storia non può permettersi di ignorare. I bar aprono le serrande. Le radio trasmettono musica leggera. In via Dante passano motorini con la marmitta rotta e da qualche parte, tra le strade strette della città, un silenzio troppo perfetto si sta preparando a inghiottire un uomo.
Un uomo qualunque, forse. O forse no: il suo nome si perderà nei verbali, nelle piste chiuse, nei fascicoli archiviati. Gianfranco Manuella. Un avvocato. Un’anomalia.
Un’ombra che attraversa la città per l’ultima volta.

Il giorno in cui non tornò

Gianfranco Manuella esce di casa al Quartiere del Sole con passo ordinario. Indossa un abito scuro, il solito, sotto braccio stringe la cartella, quella che sa più di lui che di carta. Non dice nulla alla moglie, non lascia biglietti, semplicemente un saluto veloce. L’ultimo. All’ora di pranzo, non vedendolo rientrare, la moglie chiama amici, parenti e colleghi. Nessuno sa nulla.
Sono le 13:30, parte alla polizia. Due giorni dopo il 24 aprile, la scoperta. In via Abruzzi, a pochi metri dal cimitero di San Michele, viene ritrovata la sua Renault 18. Lo sportello è aperto, dentro, sui sedili posteriori, ci sono ancora le buste della spesa, una confezione d’acqua, un pacco di pasta e qualche arancia. Non ci sono segni di violenza, documenti, tracce di una partenza improvvisa. Manuella sembra essersi dissolto nell’aria. Gli investigatori da subito scartano l’ipotesi dell’allontanamento volontario: nessuna valigia, nessun biglietto, nessun movente. Allora può essere un sequestro di persona? Improbabile. Gianfranco Manuella non è un uomo ricco, vive sotto l’assillo di debiti e banche. Che vantaggio si avrebbe da un suo rapimento?

Senza infamia e senza lode ma pedina scomoda

Gianfranco Manuella, un nome come tanti: è un avvocato civilista, né brillante né disastroso. Si arrangia e prende ciò che arriva. Uno di quelli che nei bar non lascia mai la mancia ma una sigaretta accesa a metà. Ufficialmente si occupa di cause minori, debiti, divorzi, testamenti. Nulla di eroico, nulla che lasci il segno. Ma c’è chi lo conosce bene e sa che c’è un altro Manuella. Quello che frequenta ambienti ambigui, che entra ed esce dalla base militare Nato di Decimomannu con troppa disinvoltura per essere un semplice civile. La verità è che Gianfranco Manuella è sottovalutato ma non è stupido. Sa dove mettere il naso e soprattutto comincia a parlare, troppo. Nei giorni prima della scomparsa viene convocato dai magistrati. Gli contestano traffici illeciti, legami con ufficiali della base Nato. Lui si difende, ma lo fa male, è nervoso, sconnesso. Manuella, lascia cadere accenni a documenti riservati, a verità scomode. Ma nessuno fa in tempo a capire cosa intende. Pochi giorni dopo Manuella sparisce, e con lui cento milioni di lire. Soldi veri, contanti. Successivamente dalle indagini si viene a scoprire che i denari gli sono stati consegnati da un gruppo di intermediari legati al contrabbando, forse un anticipo per un affare mai andato in porto. Una cifra enorme per un uomo pieno di debiti, braccato dalle banche e dalle scadenze. Quei soldi, quei cento milioni di euro non verranno mai più ritrovati. Svaniti insieme a lui.

Il cadavere dietro la siepe

Giugno 1981. Sono passati pochi mesi dalla sparizione dell’avvocato Gianfranco Manuella. Nessuna pista, nessun segnale, nessuna richiesta di riscatto. Finchè non arriva un corpo. Viene trovato a Torre delle Stelle, buttato dietro una siepe come un sacco vuoto. Si chiama Giovanni Battista Marongiu, è un uomo conosciuto negli ambienti della droga e delle notti storte. Un regolamento di conti, pensano subito gli inquirenti. Ma quel cadavere sarà la miccia di un’esplosione giudiziaria che travolgerà tutto. E tutti. Sulle indagini piomba un nome nuovo: Sergio Piras, ritenuto responsabile dell’omicidio. Quarant’anni, professore di francese in una scuola superiore. Laureato in giurisprudenza, con il vezzo di farsi chiamare “l’avvocato”, anche se avvocato non è mai stato. Un uomo ambiguo, affamato di riconoscimento. Viene fermato. E decide di diventare un “pentito”. Ma non per giustizia. Per protagonismo. Piras non racconta fatti ma scene: comincia a parlare e non si limita a Marongiu: afferma di conoscere i mandanti, gli esecutori, pure i retroscena. E poi butta nel calderone anche un’altra morte: quella di Gianfranco Manuella. “So chi ha ucciso l’avvocato Manuella, so dove è stato sepolto”.

Bugiardi per professione

Piras comincia a costruire il suo racconto. Dice che Manuella è coinvolto nel traffico di eroina, e che è stato ucciso per aver sottratto una grossa somma di denaro. Dice di sapere chi l’ha ammazzato, dove l’hanno seppellito e chi l’ha aiutato.
Dice. Ma non mostra nulla. Nessuna prova. Nessun nome nuovo. Solo notizie già trapelate sui giornali, informazioni prese di seconda mano, rimescolate e gonfiate.
Eppure, Piras non è solo. Marco Marroccu e Pino Pesarin, due sbandati alla deriva, si accodano alla sua versione, in cerca di sconti, protezioni e attenzioni. E così nasce un teatrino processuale dove la verità è un oggetto di scena, e il crimine un racconto da improvvisare.

In pochi giorni, i tre coinvolgono mezza città: Beppe Paderi, boss cagliaritano della piccola mala; Ludvich Nichman, l’ex militare con la bottiglieria e i contatti giusti. amico intimo di Manuella; un noto pasticcere di Cagliari, accusato senza motivo di essere punto di scambio di partite di droga. Poi, per rendere tutto ancora più “credibile”, tirano dentro anche un terzo delitto: l’omicidio di Pino Vadilonga, tossicodipendente di Pirri, ucciso per un regolamento di conti
Una storia inventata su misura per costruirsi un personaggio da “pentito utile”. E la giustizia?
La giustizia… ci crede.
Ma tutto questo è solo il preludio, il bersaglio vero deve ancora arrivare.

I nomi per il tritacarne

Un nome che fa tremare il Palazzo di Giustizia. Un nome rispettabile. Un nome pulito.
Aldo Marongiu, è lui il bersaglio. Avvocato penalista, padre di famiglia, uomo stimato, conosciuto nei tribunali per la sua lucidità tagliente e per la schiena dritta. E’ lui secondo Sergio Piras, il mandante dell’omicidio di Gianfranco Manuella. Un’accusa senza prove, senza logica ma sufficiente. La mattina del 3 dicembre 1981 Aldo Marongiu viene arrestato. I carabinieri non suonano il campanello. Sferrano colpi secchi alla porta, come se stessero entrando in casa di un assassino armato. E invece dentro c’è solo un padre, seduto con i suoi libri aperti.
Con lui finiscono sotto torchio, Giampaolo Secci, Giuseppe Podda, e Sergio Viana: altri tre giovani legali, altre tre vite pronte per essere rovinate.
La notizia fa esplodere la città. Cagliari (e pure il palazzo di giustizia) si spacca tra chi ci crede, chi dubita, chi sussurra “allora era vero”, e chi capisce subito che è tutta una farsa.
Ottobre 1983.
Dopo due anni di carcere, 675 giorni esatti, la Corte d’Assise assolve Aldo Marongiu e gli altri colleghi da ogni accusa. I pentiti hanno mentito. Tutto falso.
Quando esce dal carcere Aldo Marongiu non sorride, non si vendica e non urla al mondo l’ingiustizia. L’avvocato torna libero ma non intero. La città lo guarda come un sopravvissuto a una guerra che non ha voluto.

Fine pena mai ma non per loro

E’ vero, Aldo Marongiu è libero ma nessuno ha chiesto scusa. La verità è emersa, sì.
I pentiti hanno ritrattato. Le accuse sono crollate. Ma nessuno ha pagato per il disastro lasciato dietro. Sergio Piras, il professore di francese che sognava di essere l’eroe del processo, non è mai stato condannato per calunnia.
Ha passato pochi mesi in carcere, poi è tornato a vivere nell’ombra, ma libero.
Marco Marroccu e Pino Pesarin, gli altri due complici della grande invenzione, hanno ammesso tutto davanti alla Corte: “Ci siamo inventati tutto”. Come se stessero parlando di una bugia detta per gioco. Ma non c’era nulla di leggero in quello che avevano fatto.
Avevano spedito quattro uomini innocenti in carcere per quasi due anni. Avevano infangato nomi, carriere, famiglie.
E la magistratura cagliaritana di allora? Ha scelto il silenzio.
Nessun processo contro i calunniatori. Nessuna inchiesta su chi aveva costruito, pezzo dopo pezzo, una macchina accusatoria senza fondamenta. Il caso è stato archiviato. I pentiti sono spariti. La giustizia ha guardato il disastro, senza voltarsi indietro

Il segreto sepolto

Ma c’è un’ombra che ancora continua ad aleggiare su questa storia. Un’ombra che non si lascia guardare in faccia. Perché questo non è solo un delitto, non è solo giustizia sbagliata.
È qualcosa che fa tremare persino chi indaga.
Nei mesi successivi alla scomparsa di Gianfranco Manuella, iniziano a circolare voci basse. Non nei tribunali. Nei corridoi sbagliati. Ambienti militari. Luoghi di cui è meglio non chiedere.
In mezzo a tutto questo, una parola sussurra qualcosa di pericoloso: Ustica.

È il 27 giugno 1980.
Un DC9 dell’Itavia, partito da Bologna e diretto a Palermo, precipita in mare.
Ottantuno morti. Nessun superstite. Un disastro che urla, ma che viene subito soffocato sotto montagne di segreti di Stato. Missili, intercettazioni, guerra aerea con lo scopo di abbattere il jet del dittatore libico Gheddafi.
Gianfranco Manuella aveva visto documenti, ascoltato conversazioni, capito troppo? Di certo era di casa nella base di Decimomannu e negli ultimi giorni, aveva iniziato a parlare. O forse solo a lasciar intuire.
Poi: il silenzio. E quei cento milioni di lire, contanti spariti con lui.
Un pagamento? Una trappola? Una condanna?
“Qualcuno ha creduto che sapesse troppo. È per questo che è stato ammazzato.”
Lo dirà la moglie, anni dopo. Con la voce ferma di chi non aspetta più risposte. Non ci sono prove. Non ci sono nomi.
Solo una scia di dettagli troppo ordinati per essere casuali, troppo allineati per essere innocenti.

Quello che resta

E una certezza che nessuno ha mai smentito:
il corpo di Gianfranco Manuella non è mai stato ritrovato.
Nessuna tomba. Nessuna chiusura. Solo un uomo scomparso. E forse, insieme a lui, anche un pezzo di verità.
Cagliari ha imparato a dimenticare in fretta. Forse non sapremo mai chi l’ha ucciso Manuella. Forse non sapremo mai se è stato ucciso davvero. La realtà dice che Manuella non è morto: è stato archiviato nel faldone dei misteri d’Italia.

prova
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