
Nel 2025, in un’Italia sempre più simile a un parco tematico post-identitario — con Venezia sotto osservazione di Jeff Bezos e Firenze candidata a diventare un NFT patrimoniale — la notizia arriva nella casella mail degli abbonati del Corriere della Sera come un fulmine satirico su cieli già stanchi: “Dopo la Groenlandia, il Canada, Panama e Gaza, ora Donald Trump vuole la Sardegna.” Non visitarla. Non invaderla. Proprio: comprarla. Come se fosse una seconda casa a Porto Cervo, un dominio web ancora libero, un’opzione da crocetta su Airbnb per “intera isola mediterranea con vista su eventuali guerre”.
Chi conosce la storia sarda non può che provare una sorta di stanchezza stratificata nei secoli, un déjà vu geologico di desideri altrui impressi sulla pietra. La Sardegna, terra bellissima e continuamente oggetto di proiezioni e conquista, è stata presa, passata, ridistribuita e governata da così tanti popoli che l’unica vera costante sembra essere la sua disponibilità involontaria a farsi colonizzare. Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Pisani, Aragonesi, Spagnoli, Piemontesi, e infine l’Italia, che l’ha ricevuta come si riceve un regalo inatteso e complicato, uno di quelli che ti mettono in imbarazzo perché non sai bene dove metterlo ma non puoi nemmeno restituirlo. Ognuno ha lasciato qualcosa, spesso senza chiedere permesso: templi abbandonati, torri di guardia, leggi imposte dall’alto, strade che iniziano decise e poi si arrendono al paesaggio. Ma nessuno, fino a oggi, aveva pensato di comprarla con PayPal.
Nel pezzo del Corriere, scritto con l’equilibrio millimetrico tra parodia e verosimiglianza, Trump appare come un Don Chisciotte del tardo capitalismo, che agita contratti di proprietà al posto di spade e tratta le isole come pezzi di un catalogo immobiliare. Parla dell’acquisto della Sardegna con lo stesso tono che userebbe per descrivere un campo da golf da ristrutturare in Florida, dicendo che l’isola dovrà passare sotto la proprietà degli Stati Uniti per motivi di sicurezza militare nel Mediterraneo. Da lì parte una giustificazione progressivamente più lisergica: la Sardegna sarebbe un risarcimento per gli aiuti americani a partire dal Piano Marshall, per la protezione garantita dall’ombrello NATO, per la cultura pop e la Coca-Cola, e forse anche per qualche vecchia apparizione di Al Pacino nei film sulla mafia. Le spiagge vuote diventano opportunità per nuovi resort e basi militari, il numero delle regioni italiane si fa incerto — 42, forse 51 — come se anche la geografia fosse una questione di percezione più che di realtà.
Il problema non è lo scherzo. Il problema è che per un attimo, per un frammento di secondo nella mente contemporanea già assuefatta all’assurdo, lo abbiamo trovato credibile. La proposta dell’ex presidente americano di comprare un pezzo d’Italia (ammesso che lo sia), seppure satirica, risuona come una possibile notizia vera. E questo è il termometro più esatto della nostra epoca: il fatto che lo humour e la realtà si siano fusi in un unico, confuso campo semantico. Perché la Sardegna è da sempre trattata come un’eccezione geografica, una bellezza che si può sfruttare ma non ascoltare, un’entità che per gli italiani esiste solo d’estate, per lo Stato solo come poligono e deposito militare, e per i turisti solo come sfondo folklorico da immortalare con l’hashtag #wild.
Il passato coloniale della Sardegna non è un’ombra isolata ma una condizione cronica, un filo rosso che attraversa i secoli. I Romani la resero “provincia” quando ancora il concetto di provincia era in fase beta. Gli Spagnoli la trattarono come un giardino da svuotare, lasciandola decorativa ma improduttiva. I Savoia, nel loro zelo unificatore, imposero una lingua che nessuno parlava nemmeno a Torino e trasformarono i sardi in soldati, braccianti e cittadini con la voce bassa. La lingua sarda fu bandita dalle scuole, il folklore confinato alle sagre, l’identità trasformata in pittoresco.
E ora, Trump. Non un esercito, ma un brand. Non una bandiera, ma un algoritmo. Il colonialismo ha cambiato costume: non più spade, ma slogan; non più decreti reali, ma post virali. Non si conquista, si valuta. Non si invade, si investe. Non si bombarda, si compra. E se c’è qualcuno dentro, si deciderà dopo, magari con una clausola nel contratto. La frase “Se Gaza è una beautiful area, figurarsi la Sardegna” sembra scritta da un generatore automatico di cinismo geopolitico, ma funziona. È grezza, disarmante, quasi poetica nel suo cinismo. Perché nel mondo di Trump e simili, la bellezza è un argomento economico, e la storia una questione di proprietà.
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