
Mestre, 12 aprile 1981.
Due giorni dopo una notte di silenzio innaturale, la polizia sfonda la porta di un appartamento popolare.
Il corridoio è buio, le finestre serrate. L’aria li investe come un pugno: un odore acre, ferroso, che brucia la gola, e qualcosa di dolciastro, marcio, che si mescola al profumo artificiale di lavanda. Gli agenti avanzano con le pistole strette in pugno, i guanti che sfiorano i muri. Ogni passo rimbomba, si guardano: c’è qualcosa di orribile che li attende.
In bagno la porta è socchiusa. Dentro, la vasca è piena fino a metà. L’acqua ha il colore rosso bruno, denso. Dentro ci sono due corpi immersi, uno sopra l’altro: lei sotto, lui sopra, disposti perfettamente in maniera opposta. Sul bordo, un piatto colmo di sangue rappreso. A terra, schizzi, impronte, una scia. Il silenzio domina la scena.
Solo l’odore continua a crescere, come se volesse uscire dalle piastrelle e contaminare quanto più riesce. Gli agenti si scambiano uno sguardo, non c’è bisogno di parole: hanno capito perfettamente di essere entrati in una casa che non appartiene più ai vivi. Chi ha potuto trasformare una casa in un sepolcro Quello che è certo è che da quella vasca colma di sangue e dolore non escono solo due cadaveri, ne esce un mostro, e quel mostro si chiama Roberto Succo.
Mestre, via Terraglio 269. Un palazzone popolare, grigio e anonimo, come tanti. È qui che cresce Roberto Succo, nato il 3 aprile 1962. Dentro quelle mura non c’è calore, solo un silenzio pesante, spezzato da urla improvvise e porte sbattute. Il padre, Nazario, è un poliziotto friulano: rigido, assente, quasi un’ombra in casa. La madre, Maria Lamon, è tutto il contrario, una presenza ingombrante e ossessiva. Vive per suo figlio e lo soffoca nel suo stesso amore. Maria lo ama fino all’ossessione, Ma dietro la facciata di quelle premure materne, si nasconde il drago. Cosi la chiama Roberto. Succo cresce sotto lo sguardo costante e spietato della madre, che lo scruta, lo giudica, lo punisce a colpi di schiaffi quando scopre le sue “curiosità”. Perché già da ragazzino Roberto non gioca come gli altri, non ama le figurine né il pallone, i suoi esperimenti sono diversi, più oscuri: viviseziona, rane, lucertole, topi. Maria lo sorprende più volte e prova a fermarlo, ci prova, ma senza successo. Eppure all’esterno appare diverso, bello, alto, atletico, passa ore in palestra a scolpire il suo corpo. È colto, legge i classici, scrive, ma dentro di lui inizia a covare il conflitto. Da una parte il bambino che adora la madre, dall’altra il giovane che la odia. Lei è un drago, un drago che custodisce la sua gabbia e che non lo lascia crescere. E quel bambino dagli occhi di ghiaccio, a poco a poco, impara che l’unico modo per respirare davvero sarà ucciderlo.
Mestre, 10 aprile 1981.
Nel palazzone di via Terraglio le finestre sono serrate. Roberto ha diciannove anni. Rientra tardi, troppo tardi. La voce di Maria Lamon esplode nel corridoio: «Non hai rispetto per questa casa!». Il drago è lì, ancora una volta a sputare fuoco. Roberto stringe i pugni. Vuole la sua Alfetta, la macchina che mostra agli amici come trofeo, ma quella sera Maria gliela nega. Lo umilia: «Da oggi te la scordi!». Il respiro si interrompe. Roberto allora afferra un coltello e lo punta contro di sé: «Se non me la dai, mi ammazzo!». Maria lo trattiene, ma la lama scivola. Parte un colpo improvviso. Il metallo affonda nel ventre di lei. La furia esplode. Colpi ripetuti, alla testa, al petto. Maria cade, si contorce, prova a difendersi. Roberto non si ferma. Abbandona il coltello, afferra una piccozza da speleologo, la solleva con entrambe le mani e la abbatte sul cranio. Il drago è morto. Trascina il corpo in bagno, lo infila nella vasca e apre l’acqua. Vuole che i polmoni si riempiano, che ogni spasmo finisca. Il rumore copre i suoi pensieri. A mezzanotte la porta si apre, Nazario Succo rientra. Non fa in tempo a capire. C’è odore acre, tracce scure che portano al bagno, Roberto è li ad aspettarlo nell’ombra col coltello. Colpisce subito, poi lo finisce con l’accetta. Nella vasca, due corpi immersi nell’acqua scura, l’odore di carne in decomposizione comincia a impregnare le piastrelle. È l’alba di un baratro senza ritorno.
Nei giorni successivi al massacro, Roberto vaga come un animale braccato, non ha più una casa, né un rifugio. Due giorni dopo lo catturano. Il processo dura poco, gli psichiatri non hanno dubbi: schizofrenia paranoide. Non imputabile, non cosciente, non responsabile. Lo spediscono al manicomio criminale di Reggio Emilia. Non è una prigione, non è un ospedale: è un limbo tra urla, pianti e deliri.
Roberto parla con i medici. «Mia madre era un drago» dice. «Prima la ragione della mia vita, poi la mia sofferenza. L’ho uccisa perché era l’unico modo per respirare.» Parole fredde, quasi lucide, che gelano chi le ascolta.
Passano gli anni. Il corpo diventa ancora più atletico, scolpito. Studia, legge, si istruisce. All’apparenza sembra un ragazzo che potrebbe cambiare, ma dentro ribollono le stesse ombre: odio, ossessione, delirio di onnipotenza. Quelle no, non smettono mai di esistere.
12 giugno 1986. Roberto ottiene un permesso per uscire e frequentare l’università, dovrebbe essere la prova del suo reinserimento, il segno che forse dietro il mostro resta un uomo, ma è un’occasione persa.
Appena varca i cancelli, fugge. L’Italia lo perde in un pomeriggio d’estate. La sua ombra si allunga verso il confine, e sulle strade che portano in Francia comincia la sua seconda vita.
Francia, primavera 1987.
Roberto Succo non è più un ragazzo in fuga: è un’ombra che cambia volto e nome come fossero maschere di carnevale. Si fa chiamare Curt Andrew, guida auto rubate, dorme in stanze anonime, non resta mai troppo a lungo nello stesso posto. È la notte del 2 aprile 1987, a Tresserve, vicino ad Aix-les-Bains. Un brigadiere pattuglia le strade buie. Non sa che quella sera, al volante di una macchina grigia, c’è un assassino venuto dall’Italia. «Documenti» ordina, avvicinandosi al finestrino.
Succo sente la trappola chiudersi. In un lampo afferra il fucile calibro 22 e spara. Il proiettile colpisce l’uomo alla gola, Il poliziotto crolla sull’asfalto. L’auto resta accesa, lo sportello aperto, la pistola sparita. Roberto si allontana nel buio. Ha appena ucciso un rappresentante dello Stato, per lui è una rivelazione, si sente libero, intoccabile, invisibile. Può decidere chi vive e chi muore. La polizia francese si trova davanti a un enigma: nessuna traccia, nessun indizio, solo un cadavere e un’arma scomparsa.
Da Tresserve inizia la sua trasformazione definitiva: Roberto non è più un fuggitivo, Roberto è un predatore.
Dopo Tresserve, Roberto non si ferma, la fuga non gli pesa, è convinto di poter prendere ciò che vuole, Ma la solitudine lo divora. Ha bisogno di un volto, di un corpo accanto. E quel corpo Roberto, lo trova ad Annecy, città incastonata tra lago e montagne. È lì che incontra Françoise Vu-Dinh, 21 anni, mezzo sangue, fragile ed esotica. Per lui non è un incontro, è destino. Lei ha un fidanzato, ma non conta: Roberto è convinto che siano fatti per stare insieme, anche se lei non lo sa. La pedina, la segue come un’ombra. E’ il 27 aprile 1987. Un tassista si riposa in auto, quando una macchina grigia si accosta. Un uomo armato lo costringe a obbedire. Dal bagagliaio arriva un grido stridulo: è Françoise, legata e imbavagliata. Roberto l’ha già rapita. La porta in una baita isolata, la chiama “amore”, la accarezza, ma ogni notte la lega, per paura che scappi. Per lui è la cura, per lei, è la fine. Françoise tenta di sfuggirgli, ma per Roberto quel gesto è tradimento. La uccide. Il suo corpo non verrà mai ritrovato, e in lui resta un vuoto che non sa riempire.
Perché dietro l’amore, Roberto conosce solo una verità: chi prova a lasciarlo deve morire.
Tolone, estate 1987.
Il porto brulica di voci. A un tavolino siede Sabrina, quattordici anni, lasciata sola da un’amica, sente addosso uno sguardo: un ragazzo alto, tenebroso dagli occhi di ghiaccio. «Ciao, sei bellissima» le dice. Le sfiora il viso, la prende per mano. «Vieni via con me.» Non si chiama Curt, non è inglese come racconta, È Roberto Succo, ed è un assassino in fuga. Con Sabrina gioca alla normalità: cinema, mare, gite. Ogni volta arriva con un’auto diversa, e lei non chiede, è solo una ragazzina innamorata. Poi un giorno la porta in campagna, davanti a un casolare. Sorridendo, apre il cruscotto e tira fuori una pistola. «Sono un agente segreto, se lo racconti a qualcuno, dovrò ucciderti.» Se solo Sabrina avesse avuto il coraggio di aprire la porta del casolare davanti a lei, avrebbe trovato un cadavere. Il corpo di Michel Astoul, medico scomparso la stessa notte di Françoise Vu-Dinh, mummificato e disteso a terra. Sarà ritrovato mesi dopo, il 18 ottobre 1987, in un casolare di Épersy, ma Sabrina non legge i giornali, lei vive solo il suo amore impossibile.
Ma nell’autunno del 1987 succede l’impensabile. Durante un rapporto, Roberto stringe la gola di Sabrina sempre più forte. «Mi soffochi» ansima lei. Roberto si ferma e crolla in lacrime: «Non sono Curt. Mi chiamo Roberto, vengo da Venezia, sono scappato da un manicomio criminale, ho fatto cose orribili.» Per Sabrina è l’abisso, lo lascia. Ora Roberto è di nuovo solo, solo con i suoi demoni.
Dopo Sabrina, Roberto torna fantasma armato sulle strade di Francia.
24 ottobre 1987: sulle montagne della Savoia, uccide con un colpo alla testa Claudine Duchosal.
1 dicembre: aggredisce una ventenne, Brigitte, che si salva per miracolo.
3 gennaio 1988: violenta un’altra giovane.
La furia è caotica, incontrollabile, irrazionale. La polizia è in tilt, non c’è schema, i colpi sembrano casuali, improvvisi, disordinati. Ma emerge un dettaglio: quasi sempre avvengono con il plenilunio. È così che Roberto Succo diventa il killer della luna piena.
26 gennaio 1988, Tolone. Il locale si chiama L’Oro Azzurro, fumo, alcool, musica alta. Tre ragazze , Valérie, Carole, Béatrice , sono con un uomo che si presenta come Curt, ma nel locale comanda Jacky Volpè, ex galeotto. Lo provoca, gli pianta in faccia una sigaretta accesa.
Roberto urla, esce: «Vi ammazzo tutti!». Torna con una pistola, spara. Jacky crolla, resterà paralizzato. È il delirio, Le ragazze corrono, lui le spinge in auto e sgomma via. Il 27 gennaio, la polizia rintraccia le tre all’Hotel Prémar, non sanno che anche Succo sta arrivando, quando vede i lampeggianti, non esita. Estrae la pistola e apre il fuoco, l’ispettore Claude Aiazzi resta ferito, Michel Morandin cade a terra, Roberto lo finisce con un colpo in volto.
Ora non è più un mistero, Roberto è una priorità nazionale, il lupo mannaro deve essere catturato.
Dopo l’omicidio dell’ispettore Morandin, la Francia è in allerta. Roberto è il ricercato numero uno, nel suo appartamento al 42 di rue Colleluire, a Tolone, gli agenti trovano un arsenale: pistole, fucili, munizioni, documenti falsi, e decine di fotografie di Sabrina. Ma per la Francia resta solo Curt, l’uomo dagli occhi di ghiaccio.
30 gennaio 1988, Lutry, Svizzera. Una donna, Françoise Wannaz,esce da una farmacia, Succo la afferra e la costringe a guidare, alterna minacce e gesti infantili. «Con questa posso uccidere» dice, brandendo la pistola. Poi crolla: «Io non sono niente, sono già morto». Dopo pochi chilometri Françoise si accorge che la polizia è alle loro calcagna, Roberto grida: « O acceleri o ti ammazzo» Françoise capisce che ogni secondo può essere l’ultimo, alla prima curva la donna si lancia fuori dall’auto. La macchina si schianta pochi metri dopo, ma Roberto è svanito ancora una volta. Il cerchio si stringe. I volantini con la sua faccia tappezzano la Francia. Sabrina, spinta dal suo psicologo, confessa: Curt è Roberto, un italiano fuggito dal manicomio criminale. È la svolta.
28 febbraio 1988. Santa Lucia di Piave. La campagna veneta è immobile. La polizia circonda una casa anonima: lì Roberto cerca un frammento d’infanzia, ma trova i lampeggianti blu. Lo atterrano, lo ammanettano. E’ finita.
Vicenza, 23 maggio 1988.
Alle 6:15 del mattino un agente percorre i corridoi del carcere di San Pio X. Arriva davanti alla cella 19. «Succo, sveglia.» Silenzio.
Il corpo è immobile sul letto, il cuscino sopra la testa. L’agente apre, lo scuote: la mano è fredda, Roberto Succo è morto.
Ha avvolto una busta di plastica intorno al collo, fissata con nastro adesivo, Dentro ha infilato una piccola bombola da campeggio, quella che gli altri usano per scaldare un caffè, lui l’ha usata per soffocarsi.
Così si chiude la parabola dell’uomo dagli occhi di ghiaccio, il killer della luna piena. Aveva detto: «Ci sono forze interne che mi spingono. Sono io che devo combatterle, perché le forze esterne determinano il destino di ognuno.» Per Roberto vivere era una battaglia, ma lui, quella battaglia non l’ha mai vinta.



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