
Cagliari, dicembre 1985. In città si respira un’aria dolce e invernale. Le luminarie attraversano via Roma come stelle cadute appese per miracolo. Le vetrine dei negozi riflettono i visi dei passanti, avvolti nei cappotti, con le mani piene di pacchi e di entusiasmo. I bambini corrono tra le aiuole del Bastione di Saint Remy, si rincorrono tra un po’ di sogni e un po’ di zucchero filato, mentre le mamme trattengono sorrisi. La città sembra una cartolina accesa e profuma di caldarroste. Il mercato di San Benedetto brulica di voci, pesci freschi e muschi per il presepe. Le chiese sono illuminate e dentro le campane rintoccano leggere.
In via dei Donoratico, una strada larga e lunga che da Fonsarda porta a Pirri, palazzi popolari e negozi di quartiere, c’è una rivendita di vini che va fortissimo da anni: il Bevi Market di Giovanni Battista Pinna. È il 23 dicembre. Un giorno prima della Vigilia, un giorno prima che quella pace fatta di cartapesta venga distrutta. Perché in quella giornata, tra bottiglie impolverate e quiete da quartiere, si consumerà un delitto. Un uomo perderà la vita, un ragazzo perderà sé stesso e con loro, morirà anche una famiglia intera e la magia del Natale.
Ore 22.30, 23 dicembre 1985. Cagliari ha spento le luci dei negozi, ma non quelle delle case. C’è ancora chi impacchetta regali e chi prepara la tavola per il giorno dopo. In via dei Donoratico, il Bevi Market sta per chiudere. Dentro, Giovanni Battista Pinna 60 anni, vigoroso, con i capelli già brizzolati, sta facendo i conti dell’incasso. Molto contante. È burbero, sì, ma ha la schiena dritta e l’abitudine a cavarsela da sé. Qualcuno entra. Sono due o forse tre ragazzi con il volto coperto da passamontagna. Succede tutto in pochi secondi. Vogliono i soldi, ma Pinna resiste. Forse tenta di difendersi. Tre colpi di pistola calibro 9 squarciano la notte: uno al petto, uno sotto l’ascella, uno dritto alla testa. Il commerciante cade a terra. Il sangue cola sul pavimento. Il genero di Pinna, Marco che è lì dentro al momento della sparatoria, diventa testimone della scena. Riesce a fuggire. Arriva la volante, poi la Scientifica. La strada si riempie di sguardi attoniti. L’alberello di Natale dietro il vetro continua a lampeggiare, come se non si fosse accorto di nulla. Il cadavere rimane lì, disteso, mentre i fotografi scattano in silenzio. Il pubblico ministero Sergio De Nicola viene subito informato. Ha un approccio diretto, spiccio. Cagliari, intanto, si prepara al Natale con un morto in più e con una verità che comincia ad andare nella direzione sbagliata.
24 dicembre 1985.
Cagliari si sveglia tra il profumo del caffè e le vetrine ancora illuminate. Ma qualcosa è cambiato. In via dei Donoratico, il sangue del Bevi Market non si è ancora asciugato. Il cadavere di Giovanni Battista Pinna è stato portato via, ma le voci corrono più veloci delle pattuglie. Marco, il genero di Pinna, dichiara di aver visto visto tre ragazzi: tutti con il passamontagna. Nessuno ha visto in faccia nessuno. Poi arriva la prima “soffiata”: un testimone, mai del tutto identificato negli atti ufficiali, riferisce che un certo Aldo Scardella sarebbe stato visto spesso – anche quella sera – nei pressi del Bevi Market.
Il 26 dicembre, la macchina del sospetto si mette in moto. Il testimone dice che Aldo era lì, nei pressi del Bevi Market., ma in realtà Aldo quella strada la fa ogni giorno per arrivare a casa sua. Ma per gli investigatori questi è sufficiente.
La svolta, però, arriva il 28 dicembre, quando l’ispettore Sergio Suergiu della Questura di Cagliari trova un passamontagna nel cortile vicino a via Capula, dove vive la famiglia Scardella. Lo descrive come “nascosto tra i cespugli”, ma in realtà verrà poi dimostrato che quel passamontagna era ben visibile come lanciato di fretta durante una fuga. Per la magistratura, quel passamontagna ha un valore enorme. Il pm De Nicola firma subito il mandato di perquisizione in casa Scardella. Nessun ritrovamento utile, nessuna arma, nessuna prova. Ma ormai il meccanismo è partito. Aldo viene convocato in Questura, interrogato per tre giorni senza sosta. Gli contestano di essere alto 1 metro e 70, l’altezza di uno dei rapinatori. Gli chiedono di fare nomi, di confessare, di collaborare. Aldo non parla. Perché non sa cosa dire, non sa nulla. Il 29 dicembre, senza confessione e senza prove reali, Aldo Scardella viene arrestato. Viene trasferito nel carcere di Oristano in isolamento. Comincia il buio, lento e abissale. Nessuno può vederlo. Nemmeno il suo avvocato. Il luogo della sua detenzione viene tenuto segreto per settimane, per “evitare inquinamento delle prove”, questa la giustificazione. E’ tempo di cercare un colpevole, non la verità.
Aldo Scardella nasce a Cagliari nel 1961. E La sua è una famiglia semplice, pulita, senza grilli per la testa. Il padre lavora, la madre lo segue con affetto, i fratelli gli stanno accanto. Aldo è un ragazzo schivo, silenzioso, ma educato. Non fa rumore, non cerca guai. Ha una fidanzata che lo ama profondamente. Studia economia, anche se con risultati alterni, e per arrotondare fa lavoretti. In quei giorni vende stelle di Natale. Aldo ama la solitudine. Ama correre all’alba, quando le strade sono vuote. Chi lo ha conosciuto parla di un ragazzo generoso che ha iniziato a frequentare la droga ma non è un dipendente. È un abitudinario: ogni giorno passa davanti al Bevi Market per tornare a casa. Lo conoscono tutti in zona. Ha il volto da bravo ragazzo. E lo è. Regala fumetti ai ragazzini del quartiere, sperando che anche loro si innamorino di Tex e Zagor come lui. Per questo, quando si parla di lui come un possibile assassino, nessuno riesce a crederci. Non ha precedenti, non ha amicizie pericolose, non ha mai alzato la voce e nei cortei studenteschi è sempre in prima fila. È un’anima delicata, con uno sguardo basso ma sincero. Uno che non fa notizia. Finché, un giorno, la notizia diventa lui. E quando il meccanismo si mette in moto, nessuno ha il coraggio o il tempo di fermarlo. Il sistema lo risucchia, lo etichetta, lo processa prima ancora di giudicarlo.
Il 2 luglio 1986 non è un giorno come gli altri. Sono passati più di sei mesi da quella sera maledetta. Sei mesi di silenzio, isolamento, interrogatori infiniti, sguardi persi nel vuoto . Aldo è stato trasferito nel carcere di Buoncammino, ormai un corpo vivo tenuto sotto vuoto, un’anima che ha smesso di urlare. Alle prime luci dell’alba, Aldo Scardella nel buio della sua cella, usa le sue stesse lenzuola per impiccarsi alle grate della bocca di lupo, quell’unico spiraglio d’aria in una stanza senza speranza. I piedi non toccano più terra, il silenzio inghiotte tutto. Quando il secondino guarda dallo spioncino, è troppo tardi. Il corpo di Aldo penzola già da tempo. Sulla branda, due righe scritte, urlano la sua innocenza e la sua rassegnazione. Un suicidio che ha il suono di una condanna emessa dallo Stato, una fine solitaria, disperata. Quando la notizia si diffonde, qualcuno si indigna. Ma i più tacciono. Ma una voce scegliere di rompere il silenzio. Enzo Tortora, anche lui vittima della giustizia malata, parla pubblicamente di Aldo Scardella. Lo fa a gran voce. Va a trovare il suo loculo, al cimitero di San Michele, a Cagliari. Nessuno viene indagato. Nessuno paga. Lo Stato ha sulla coscienza un innocente.
Dieci anni. Ci sono voluti dieci, lunghissimi anni. Aldo è morto. La fidanzata è morta. Il fratello è morto. Ma la giustizia, quella vera, dorme ancora. Poi, nel 1996, dal carcere di Spoleto, una voce si leva dal fondo. È Antonio Fanni, classe 1953, originario di Desulo, condannato per far parte della violenta Banda di Is Mirrionis, guidata da Mario Tidu. È un criminale navigato. Ma Fanni decide di collaborare con la giustizia e inizia a raccontare. Tra le tante dichiarazioni, c’è un nome che salta fuori: Aldo Scardella. Ma non come complice. Come vittima. Fanni rivela che a compiere la rapina del Bevi Market furono Walter Camba e Adriano Peddio. Dice che fu lui stesso a fornire le armi, una calibro 9, ai due per il colpo. E racconta ogni dettaglio. L’arrivo in motorino, l’irruzione nel market, i tre spari, la fuga nel panico. Non c’è un solo riferimento ad Aldo Scardella. Parole che rimettono tutto in discussione. Che distruggono, un’intera impalcatura di accusa costruita sul nulla. Nel 1998, dopo anni di colpevole silenzio, Camba e Peddio vengono rinviati a giudizio. Saranno condannati a 18 anni di carcere per l’omicidio di Giovanni Battista Pinna. Antonio Fanni, invece, non arriverà mai alla sentenza. Nel 1997, decide anche lui di impiccarsi nella sua cella, con i lacci delle scarpe. Un altro corpo, un altro cappio.
Aldo Scardella è morto. E con lui è morto tutto ciò che lo teneva in vita: la dignità, la fiducia, l’amore, la speranza. Ma non la verità. Quella, anzi, da quel giorno inizia a urlare più forte. I magistrati che lo interrogarono, lo isolarono, lo lasciarono in cella, sono al loro posto. La fidanzata di Aldo, devastata, si ammala e muore all’inizio degli anni ’90. Il fratello maggiore Mario, brigadiere della Guardia di Finanza, muore di leucemia appena un anno dopo la tragedia. Resta solo Cristiano, il fratello minore. Un uomo che, negli anni, si è fatto portavoce della memoria. Ha lottato per intitolare una piazza ad Aldo. Perché almeno Cagliari non dimentichi. Perché almeno un luogo parli dove i tribunali hanno taciuto. A pochi metri da dove si consumò il delitto, oggi una targa del Comune, voluta dal consigliere Claudio Cugusi, ricorda il nome di Aldo Scardella. Ma non basta, non basterà mai. Aldo e’ stato ucciso dal silenzio di una giustizia ingiusta. E mentre in quella cella il suo corpo si faceva silenzio, lo Stato si girava dall’altra parte.
Ultimi Articoli
www.sardegnanotizie24.it
è un marchio della testata giornalistica Sardegna Eventi24
registrato presso il Tribunale di Sassari n° 1/2018
Editore: Rosso Digitale
Direttore responsabile: Gabriele Serra
Coordinatore della redazione: Claudio Chisu
Hosting Keliweb s.r.l – Via Bartolomeo Diaz, 35, 87036 Rende (CS)