IL PUNTO. Irene Testa, il carcere e la rabbia social

Irene Testa

Irene Testa è la Garante per la Sardegna dei diritti delle persone private della libertà personale. Il suo lavoro è semplice solo in teoria: entrare nelle carceri, osservare le condizioni di vita dei detenuti e riferire. In pratica, significa attraversare corridoi con muri corrosi dall’umidità, ispezionare celle sovraffollate dove gli arredi personali sono ridotti al minimo per far spazio a più corpi possibile, ascoltare storie di malattie mentali non curate, di bagni senza porte, di caldo soffocante d’estate e freddo paralizzante d’inverno.

Qualche giorno fa, ha fatto il suo dovere visitando il carcere di Bancali. Il risultato? Oltre alla consueta conferma delle condizioni disumane della struttura, una tempesta di insulti sui social. “Garante di stupratori e assassini”, “si preoccupi delle vittime”, “chi ha ucciso deve marcire in galera”, “chiudete le celle e buttate le chiavi”.

La rabbia, però, non è mai un fenomeno spontaneo. Ha le sue dinamiche, le sue regole. E online, segue una sceneggiatura ben precisa.

L’odio in pillole: il nuovo sport collettivo

Se c’è una cosa che internet ha reso accessibile a tutti, è la possibilità di provare indignazione a costo zero. Sui social non serve conoscere un argomento per lanciarsi in una sentenza. La regola è semplice: più il commento è drastico, più funziona. “Perché preoccuparsi dei detenuti quando ci sono gli anziani che prendono pensioni da fame?” oppure “se vuoi un carcere confortevole, non commettere reati” sono il tipo di frasi che generano like, condivisioni e interazioni.

E come sempre accade, quando un’onda di odio si alza, ne arriva subito un’altra in direzione opposta. A difendere Testa c’è chi le ricorda che “chiunque può finire in carcere, anche da innocente”, chi sottolinea che “la dignità non si perde con la condanna”, chi avverte che “la ruota gira, potrebbe capitare a voi”.

Il risultato? Una guerra di commenti tra chi vorrebbe vedere il carcere trasformato in un inferno e chi cerca di ricordare che la civiltà si misura dal modo in cui tratta i suoi ultimi.

Ma la questione di fondo è un’altra.

La giustizia come spettacolo

Oggi la giustizia non è più solo un principio legale, è diventata un format. I processi si seguono come serie TV, i casi di cronaca diventano intrattenimento, la sofferenza – purché non ci riguardi – è qualcosa su cui discutere animatamente. L’idea che il carcere debba essere un luogo di sofferenza non è più una posizione estrema: è la norma.

Poco importa che più della metà dei detenuti non stia scontando ergastoli per omicidi, ma pene per reati legati alla povertà, alla marginalità e alla tossicodipendenza. Poco importa che esistano persone in attesa di giudizio, senza ancora una condanna. L’importante è che la narrazione regga: chi sta dentro è un mostro, chi sta fuori è una vittima.

Ma una società civile si misura non da come tratta i migliori, bensì da come tratta i peggiori. La domanda non è se chi ha ucciso debba avere una celletta singola con vista e colazione a letto. La domanda è: vogliamo un sistema che punisca e basta, o un sistema che funzioni davvero?

Nel frattempo, Irene Testa continua a fare il suo lavoro. Guarda, ascolta, riferisce. Online, gli insulti e la solidarietà continuano a rimbalzare. E la ruota gira, come sempre.

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