
Carbonia, fine anni Ottanta. L’aria sa di ruggine e di silenzi pesanti. I bambini si rincorrono in bicicletta, le voci rimbalzano da un balcone all’altro. È una città operaia Carbonia, tranquilla e ordinata, costruita con il sudore e l’orgoglio. Un luogo dove non succede mai nulla, o almeno cosi sembra. Ma nell’estate del 1989, qualcosa cambia. Una porta che non si apre, una ragazza che non torna a casa e una nonna affacciata alla finestra che guarda l’orologio e aspetta. Nessuno può immaginarlo, ma in quella notte calda e immobile, Carbonia smette di essere innocente. Questa è la storia di Gisella Orrù. Sedici anni, un diario pieno di poesia e una vita ancora tutta da scrivere. Carbonia non dimentica, noi nemmeno.
28 giugno 1989, ore 21:30. Via Giorgio Asproni, terzo piano di una palazzina popolare. Gina è affacciata alla finestra, tutto è immobile, fermo come in una fotografia. Dentro casa, tutto è in ordine, Il tavolo è apparecchiato, le sedie sono al loro posto e l’orologio sul muro segna l’ora del rientro, ma una sedia è vuota e Gisella non c’è. Non è da lei, non è mai da lei. Gisella è sempre stata puntuale, lo sa bene che alle 21:30 deve essere in casa, lo sa bene cosa significa tardare in quella casa. Con nonna Gina, vivono Gisella e la sorella minore Tiziana. Sono due adolescenti cresciute in quella casa che sa di ammoniaca e regole ferree. Ma quella sera qualcosa è fuori posto. Gisella non torna. Ore 22:00, Gina si alza, guarda giù, poi dentro poi di nuovo fuori. Cammina avanti e indietro, controlla l’orologio. Sono le 23:00, un motore si spegne sotto casa, una macchina rallenta, poi si ferma, è Salvatore Pirosu il vicino di casa di Gina. Lo conoscono tutti nel quartiere, è disoccupato, vive di espedienti ma è sempre pronto a rendersi utile. Con le donne sole è generoso, gentile, disponibile, forse troppo. Lo si vede scaricare buste della spesa, dare passaggi, aggiustare una maniglia. Gisella e Tiziana lo chiamano “Zio Tore”. Si fidano di lui, nonna Gina ancora di più. Quella sera Gina sale nella macchina di Salvatore e si fa accompagnare dal figlio Gisello e insieme iniziano a cercare Gisella per le vie di Carbonia, ovunque. Ma di lei non c’è traccia,nessuno ha visto Gisella.
28 giugno 1989, è mercoledì. Il caldo è incollato all’asfalto. Tra le strade di Carbonia i ragazzi girano per le solite vie, senza fretta. Gisella è con i suoi amici, in via Napoli, chiacchiera, ride, fa quello che fanno tutti a sedici anni: passeggia avanti e indietro, come ogni sera. È la sua routine. Ma quella sera quella routine si interrompe. Alle 20, saluta gli amici: c’è qualcosa che Gisella non racconta. Ha ancora un’ora prima del coprifuoco di nonna Gina. Da quel momento, nessuno la vede più. È in quel buco di tempo, tra le 20 e le 21:30, che qualcosa succede. Il 29 giugno 1989 Il giorno dopo, arriva una telefonata a casa di nonna Gina. E’ una voce di donna, dice: “Non si preoccupi. Gisella sta bene. È con noi. Andremo via per un mese, partiamo!”.
Un messaggio che non convince nessuno. Non convince la nonna e neppure il padre. Non convince nemmeno l’altra nonna, Giovanna Zucca, che riceve una seconda telefonata uguale, alla pasticceria di Iglesias di cui è titolare. Nessuno ci casca. È evidente: quella voce sta mentendo. Perché una cosa è certa: Gisella non è scappata. Non è una ragazza che prende e parte, non è una che si infila in avventure, non senza dire nulla. Cominciano le ricerche a tappeto, le strade vengono perlustrate, i conoscenti interrogati. Eppure, dopo le 20, di lei non resta più nulla. Solo voci, solo ipotesi, solo la notte che si fa più buia e una città che comincia a tremare, senza sapere ancora perché.
Gisella ha sedici anni, vive a Carbonia, in una palazzina popolare, al terzo piano in via Asproni. Con lei, ci sono la nonna Gina 55 anni e sua sorella minore Tiziana, un anno più piccola di lei. Gisella e Tiziana sono figlie di una ferita che non si è mai rimarginata. La madre è sparita nel nulla anni prima , senza spiegazioni. Il padre, Gisello, camionista, le affida a sua madre Gina. Le figlie crescono senza genitori, senza carezze ne domande, in una casa di regole ferree e doveri. Gina non è una donna tenera, è una donna dura che educa con lo sguardo. Ma Gisella è diversa, riservata, profonda, malinconica, una ragazza che sogna altrove. Gisella ha un diario, è il suo rifugio, Il suo amico, Il suo specchio. L’unico posto dove può permettersi di essere fragile. Nel diario scrive pensieri, dolori, scrive quello che nessuno vuole sentire.“Sono un arcobaleno scolorito, uno scoiattolo stanco, una manciata di sale, una goccia appassita, un fiore finito, una luce spenta, una stella caduta.” Gisella è bella, Il suo corpo si è formato in fretta, un seno prosperoso, lineamenti morbidi. E attira attenzioni sbagliate. Sente che Carbonia le sta stretta, sente che nessuno lì ha un futuro, scrive che vorrebbe andarsene, scappare e trovare un posto dove sentirsi libera. Ma è sola nel suo diario, nei suoi pensieri. E quando sparisce, nessuno sa davvero chi fosse. Perché Gisella non ha mai avuto il tempo di raccontarsi, solo quello di scriverlo, e di essere ignorata.
7 LUGLIO 1989. Sono passati nove giorni dalla scomparsa. Poi, un’altra chiamata, ancora quella voce, ma stavolta fredda calma, impersonale. Ora non cerca di rassicurare, ora dice dove cercare:Una condotta per l’irrigazione, nelle campagne tra Carbonia e San Giovanni Suergiu. Un pozzo. I carabinieri partono subito, ed eccolo Il pozzo: quadrato, in cemento, profondo undici metri. Dentro un corpo bianco e nudo, immerso nella decomposizione e nel buio. È Gisella. Ha solo una catenina con una medaglietta della Madonna e un orologio al polso, nulla più. L’autopsia è agghiacciante, un solo colpo dritto al cuore, un oggetto appuntito, sottile e lungo. Forse un cacciavite o forse uno spillone, mai trovato. Quindici centimetri di morte chirurgica per quattro millimetri di diametro. Il corpo presenta una ferita profonda alla testa, un colpo violento, con un oggetto contundente. E’ stata tramortita, seviziata e poi uccisa, non ci sono segni di difesa. Ha subito abusi Gisella, violenza, torture. È stata uccisa, con lucidità e precisione, poi buttata giù come spazzatura, come qualcosa da nascondere, nel punto più profondo, e con lei è caduta giù tutta la verità che Carbonia non ha mai voluto vedere.
Dopo il ritrovamento del corpo, la paura diventa reale. A Carbonia tutti tacciono, tutti sanno qualcosa, o fanno finta di non sapere. Ma non passa molto tempo la voce anonima, torna a parlare. Racconta di due auto: Una Fiat 131 color vinaccia, parcheggiata in via Ospedale e una Fiat 126 bianca, dove Gisella sarebbe salita volontariamente. I carabinieri scavano. La Fiat 126 bianca appartiene a lui: Salvatore Pirosu, zio Tore. Il vicino di casa, quello che Gisella e Tiziana considerano quasi un parente. Ma dietro quella maschera gentile, c’è un abisso: precedenti per violenza sessuale, tentati stupri, espedienti e bugie . Viene interrogato, e confessa. Dice di non aver agito da solo, di aver “solo portato” Gisella, e fa nomi, due:Licurgo Floris, un meccanico già noto alle forze dell’ordine, spavaldo, arrogante, con una vita costellata di truffe e denunce e Giampaolo Pintus tossicodipendente consumato.
Pirosu racconta che Gisella piaceva molto a Floris. Dice di averla accompagnata in un boschetto a Mazzaccara vicino al mare, con un pretesto. All’inizio, i due riescono a convincerla ad avere un rapporto,poi-racconta- le richieste diventano più spinte, più umilianti. Gisella si ribella, scappa. La raggiungono, la colpiscono alla testa con un sasso e la trafiggono al cuore. Nudi, nel buio, la caricano in macchina. Otto chilometri più avanti, gettano il corpo nel pozzo. Pirosu parla anche di una donna presente: Gianna Pau, detta Janette, prostituta conosciuta in zona.
E la Fiat 131 color vinaccia? Viene ignorata, nessuno indaga. E intanto, i carabinieri credono a Pirosu. Arrestano Floris e Pintus. Ma qualcosa da subito comincia a scricchiolare. I carabinieri accompagnano Pirosu nella pineta di Mazzaccara, vicino al mare. L’orario indicato è tra le 21:30 e le 22:00. Ma c’è un problema: a quell’ora, lì, non si vede nulla. Buio totale, rovi ovunque che non ne permettono il passaggio, nessun sentiero. Impossibile muoversi, figuriamoci inseguire una ragazza. Gisella aveva mangiato patate al forno e carne, un pasto cucinato,un piatto completo, servito da qualcuno, non un panino al volo: prima di morire, Gisella è stata in una casa. La scena del crimine non esiste, la versione di Pirosu cade al primo passo, eppure, viene mantenuta. Ma si avanti. A parlare è il corpo di Gisella: è troppo pulito, sul corpo e tra i capelli non c’è sabbia, né terra, rovi o aghi di pino. Niente che faccia pensare a un bosco. Poi, i nastri con le registrazioni delle telefonate spariscono. Persi, mai trovati. Una prova chiave, dissolta nel nulla. E nessuno sa spiegare come o perché. Inoltre Il pozzo era troppo visibile, si trova vicino a una strada molto frequentata. Chiunque sarebbe stato visto, e invece nessuno ha visto nulla.
Ma l’orrore non si ferma a Gisella. Un mese prima della sua morte, Liliana Gracchio, sedici anni, sua compagna di scuola, si toglie la vita ingerendo stricnina. Una morte lenta, straziante, atroce. Un suicidio brutale. Sul muro della scuola, pochi giorni dopo, compare una scritta:“Hai fatto bene a ucciderti.” Una frase che sembra uno sfregio, o un avvertimento. La madre racconta di tre uomini comparsi a casa, poco prima del suicidio, con la scusa di vendere lingerie. Liliana ne rimase sconvolta. Uno di loro, si scopre, è un mafioso in soggiorno obbligato a Carbonia. Pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo di Gisella, un’altra ragazza, anche lei coetanea, tenta il suicidio. Il suo nome è Sabrina. Beve candeggina, si salva per un soffio. Aveva visto qualcosa? La stessa notte in cui Gisella scompare, viene trovato morto Angelo Canè,40 anni, guardone noto in zona, abituato a spiare coppiette. Ritrovato a pochi passi dal pozzo. Ucciso. Forse aveva visto, forse era nel posto sbagliato al momento sbagliato. In pochi mesi, Carbonia diventa una tomba aperta. Le ragazze muoiono, si uccidono, scompaiono, cadono nel buio. Intanto un giornale locale, “Vox Populi”, pubblica un articolo-bomba: festini privati, organizzati in ville estive della zona, droga, uomini potenti, minorenni vergini e obbedienti. Da quel momento, Carbonia diventa una scatola chiusa, piena di chiavi che nessuno ha il coraggio di girare.
Pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo di Gisella, qualcuno lascia una lettera sul pozzo.Un foglio, una calligrafia incerta, è la mano di una giovane donna che prova a rompere il silenzio. Non si firma. “Ho paura di finire come Gisella. Anche io, come lei, sono caduta nelle mani di chi mi tiene saldamente in pugno. So cose. Posso inchiodare tante persone. Perfino due degli assassini di Gisella. Sono disposta a raccontare tutto. Ma non posso farlo da sola. Se altre ragazze parleranno, parlerò anch’io. Aspetto una risposta, attraverso il giornale. Fate presto.”
Una lettera scritta con la morte negli occhi. Ma nessuno risponde, nessuna ragazza scrive, nessun giornale pubblica. Quella lettera cade nel vuoto, come Gisella nel pozzo. E con lei, muore anche l’ultima possibilità di scoprire la verità.
Nel frattempo Licurgo Floris viene condannato a trenta anni di carcere, ma non ha mai smesso di gridare la sua innocenza. Viene rinchiuso nel carcere di Buoncammino, a Cagliari. Poche ore prima di un’intervista autorizzata con la trasmissione “Chi l’ha visto?”, rifiuta l’incontro. E improvvisamente viene trasferito a Sollicciano, a Firenze. Floris aveva paura. Nel 2007, si toglie la vita, si impicca in cella. Nessuna lettera d’addio, solo un uomo che si è sentito murato vivo, non creduto e forse innocente. Giampaolo Pintus, viene scagionato e muore poco dopo di AIDS. Gianna Pau, ha un alibi di ferro. Salvatore Pirosu condannato a 26 anni di carcere ne sconta 24.
Carbonia ha dato a Gisella una strada con il suo nome, un piccolo gesto forse sincero. Ma quella strada non basta a riscattare il silenzio, non basta a far luce sul buio, non basta a restituire ciò che è stato tolto. Perché Gisella non è morta per caso, è stata tradita, ingannata, manipolata. E poi è stata sepolta due volte, la prima, in fondo a un pozzo, e la seconda, dentro una verità comoda, costruita frettolosamente. A trentacinque anni di distanza, il volto dell’assassino non è mai emerso davvero. Gisella scriveva versi, disegnava dolore, chiedeva ascolto. Ma nessuno ha mai letto davvero il suo diario, nessuno ha mai capito quanto urlasse piano. Carbonia ha imparato a convivere con questo fantasma e non lo ha mai guardato in faccia davvero. E ora che il tempo ha coperto tutto con la polvere, resta solo il dovere di non dimenticare. Per Gisella, per Liliana, per tutte le ragazze che nessuno ha saputo proteggere. E per quella verità che ancora oggi giace, inchiodata nel buio, in fondo a un pozzo. Sul suo diario, alla voce “indirizzo d’ufficio”, Gisella scriveva: pompe funebri. E alla voce “passaporto”: per l’oltretomba. Lo ha fatto con l’innocenza di chi gioca con le parole, senza sapere che quelle righe, oggi, pesano come lapidi. Non erano solo pensieri. Erano segnali, ma nessuno li ha letti in tempo.
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