L’ombra sul balcone: il mistero di Luisa Manfredi, la figlia di Matteo Boe

Luisa Manfredi

Lula si arrampica sulle colline come un pensiero ostinato. Case basse, silenzi lunghi, sguardi che non cercano mai troppo lontano. È il 2003, ma potrebbe essere qualsiasi anno: qui il tempo cammina piano, con scarponi impolverati e parole pesanti. A ogni passo si sente la memoria, e non sempre fa rumore.
Le strade sono strette, di pietra viva. I bar chiudono presto, le luci si spengono piano. I vecchi stanno seduti davanti agli usci con gli occhi fissi e le bocche chiuse. A Lula, le voci non girano mai a vuoto. Si muovono sottopelle, scivolano nelle orecchie giuste, si confondono col vento. In questo paese ci si conosce tutti, ma non fino in fondo. Ci si guarda, ma non si vede davvero. Soprattutto quando arriva l’inverno, e con l’inverno certe ombre. E poi ci sono i balconi, vulnerabili. Affacciati su una valle che respira misteri e trattiene i nomi. Qualcosa si è mosso, qualcuno ha aspettato. Il paese lo sa. Ma tace.

Un colpo alla testa

Il sole di fine novembre si arrampica a fatica tra le nuvole basse del Corrasi. È un martedì pomeriggio qualunque, ore 18:20 la luce ha il colore pallido dell’inverno, Una ragazzina sale le scale della sua casa, silenziosa. Prende la cesta del bucato. Ha solo 14 anni, indossa una tuta, I capelli raccolti in fretta. Apre la porta del terrazzo, esce fuori, l’aria è frizzante e Il bucato pesante.
Stende, molletta dopo molletta. La schiena piegata, il capo chino. Non sa che qualcuno la osserva,
da lontano, nascosto, qualcuno la inquadra. Il fucile calibro 12, Mossberg Maverick è puntato. Il dito è sul grilletto. Il primo sparo squarcia il silenzio.
Un colpo secco da una distanza di settanta metri. Il proiettile le arriva dritto alla tempia, con la violenza cieca di una esecuzione.
Sulla parete, macchie rosse. La ragazzina si accascia sul pavimento del balcone. Nel cortile qualcuno sente lo sparo. Dentro casa, la sorellina sente il rumore, pensa sia un petardo, poi urla. La verità è che una ragazza è stata uccisa all’istante da un colpo devastante alla testa. La notizia si diffonde in fretta. Lula si ammutolisce, il bucato ondeggia ancora al vento, nessuno sa chi ha sparato, nessuno capisce il perché. Una ragazzina di Lula è stata giustiziata in casa sua. In pieno giorno, senza pietà, senza un nome.

Nel nome del padre

Nata in Francia, Luisa Manfredi vive a Lula, nella provincia di Nuoro, insieme alla madre e ai suoi due fratelli minori, Andrea e Marianna, in una casa sobria in località Sa Conchedda, su una collinetta che guarda il paese dall’alto. Luisa cresce tra i libri del liceo scientifico e le lettere inviate dal carcere. Quelle di un padre che non ha mai conosciuto davvero.
Perché Luisa è figlia di Matteo Boe, il bandito. L’uomo più ricercato d’Italia negli anni ’80, quello delle evasioni impossibili, dei sequestri milionari, dell’orecchio tagliato al piccolo Farouk Kassam. Lo chiamano l’inafferrabile, quello che ha osato sfidare lo stato più di una volta. Ma Luisa, sua figlia, doveva vivere un’altra storia. Luisa è una ragazza discreta, riservata, una di quelle anime che non fanno rumore. Non ha grilli per la testa, non cerca guai. Con il volto limpido guarda la strada e quel mondo un po’ ostile che non ha scelto, ma dentro il quale cammina con grazia. È una figlia del vento sardo, forte e gentile. Non è figlia della colpa Luisa, ma figlia della speranza.

Matteo Boe l’inafferrabile

Matteo Boe. E’ questo il nome che in Sardegna si sussurra con rispetto o con paura, a seconda delle stagioni del tempo. Un nome che cammina sul filo tagliente tra leggenda e paura.
Bandito, latitante, anarchico, padre. Oggi libero.
Matteo Boe nasce il 9 novembre del 1957 a Lula. Un padre muratore, una madre con lo sguardo scavato dalla fatica. Si diploma come perito agrario, poi parte per Bologna e frequenta la facoltà di Agraria. Qui conosce Laura Manfredi, l’amore folle della sua vita e madre dei suoi figli. Matteo Boe viene arrestato e condannato a 16 anni di carcere per aver partecipato il 2 luglio del 1983, al rapimento di Sara Niccoli, ma è solo l’inizio. La cella non lo spegne anzi, lo affila. Matteo Boe capisce che la vera libertà, per lui, non è fuori. È oltre. Il salto nell’abisso arriva nel 1986, quando evade dal carcere dell’Asinara, meglio conosciuto come “’Alcatraz” Italiana, insieme a Salvatore Duras, dentro per furo. Prende in ostaggio due agenti di custodia, si traveste da secondino e in gommone, dove sua moglie Laura Manfredi lo aspetta, scompare nella notte. Matteo Boe riesce a raggiungere la Corsica, trovando rifugio e riuscendo a far perdere le sue tracce per sei anni. Nel frattempo, il suo nome sale al vertice della lista dei ricercati più pericolosi d’Italia.

La lunga prigione di Matteo Boe

Ma è il 13 ottobre 1992 che segna lo spartiacque definitivo. Boe viene arrestato dalle forze speciali francesi, insieme agli agenti sardi, a Porto Vecchio in Corsica, mentre trascorre alcuni giorni di vacanza sotto falso nome, con la compagna Laura Manfredi e i figli. Vengono colti di sorpresa alle ore 10.30 nella hall dell’albergo “Le Palme”. Immediatamente viene trasferito nel carcere di Marsiglia, la magistratura chiede l’estradizione, con una condanna a 25 anni di carcere. Le accuse sono pesantissime: associazione a delinquere, traffico d’armi, sequestro di persona, tentato omicidio, rapine. Ma c’è una cosa che colpisce più di tutto l’opinione pubblica, un nome: Farouk Kassam. Il bambino rapito nel 1992 e mutilato dai suoi carcerieri. La sua storia sconvolge il Paese e Matteo Boe viene condannato anche per quel crimine. Eppure, lui non parla, non scrive lettere, non chiede perdono. Non si pente, mai. In tutti i penitenziari dove passa, non si piega. Resta solo, legge molto, studia filosofia, anarchia, politica. Boe finisce di scontare la sua condanna nel giugno 2017. La sua uscita dal carcere desta clamore. Lui sceglie il silenzio. Ma è il 25 novembre 2003 a segnare il colpo più basso, quando il destino si riprende il conto. Luisa Manfredi, la figlia, viene uccisa con un colpo di fucile alla testa. Matteo Boe non è presente.

Dove nessuno parla

Le indagini iniziano subito, e subito si moltiplicano le piste. La prima ipotesi battuta dagli inquirenti è quella passionale: si parla di un possibile legame sentimentale, di un coetaneo geloso, di una lite degenerata in vendetta. Si cerca negli ambienti scolastici, nelle confidenze tra amiche. Un giovane finisce sotto processo, ma la sua innocenza viene riconosciuta in via definitiva in Cassazione: assoluzione piena, nessuna prova, solo supposizioni. La pista si chiude. Poi, arriva un’ipotesi che fa gelare il sangue: l’assassino potrebbe aver confuso Luisa con sua madre, Laura Manfredi.
Le due si somigliano. Stessa corporatura, stessi capelli castani. E soprattutto, stessi movimenti, visti da lontano, da un mirino. Laura è sola, vive in un paese che non l’ha mai davvero accettata. È stata la compagna di Matteo Boe, il bandito più discusso e temuto della storia recente della Sardegna.

La madre, l'ombra e il sospetto

Dopo la separazione, ha cresciuto i figli da sola. E non è mai uscita dall’alone d’ombra lasciato da quel cognome. Qualcuno potrebbe aver voluto colpire lei, per colpire qualcun altro. Una vendetta. Anche la pista politica, legata a vecchi rancori, emerge in sottofondo, ma nessuno ha il coraggio di parlare apertamente. Gli inquirenti ipotizzano, raccolgono testimonianze, ma si trovano davanti a un muro. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno confessa.
Nel 2009 il caso viene riaperto. Si esaminano i bossoli, si analizzano le poche tracce. Ma il fucile calibro 12 non lascia impronte, non restituisce DNA. Non ci sono testimoni oculari, non ci sono confessioni. Il killer è un’ombra, un’ombra che ha mirato al cuore di una famiglia già ferita.
E mentre i fascicoli ingialliscono, resta un’unica certezza: Luisa Manfredi è stata assassinata, come cantano Gigi Sanna e gli Istentales con strofe delicate per renderle un ultimo omaggio.

Una fotografia che non sbiadisce

Lula non dimentica e non potrebbe farlo neanche volendo.
Ogni 25 novembre, quando l’Italia si veste di rosso per ricordare le vittime della violenza di genere, in quel paese fatto di pietra e silenzio c’è un nome che risuona più di tutti: Luisa Manfredi.
Ogni anno, le scuole organizzano incontri, proiezioni, momenti di silenzio. Alcuni li chiamano commemorazioni, altri preferiscono definirli gesti di sopravvivenza collettiva.
Il volto di Luisa, impresso in una fotografia sbiadita, riappare puntualmente sui giornali locali.
Le sue immagini, le sue risate raccontate da chi le voleva bene, continuano a camminare tra le strade di Lula come un’ombra dal volto gentile. Ma il ricordo non basta a placare le domande.
La memoria di una ferita aperta non è una carezza, è una condanna quotidiana.
La madre, Laura, ha continuato a vivere. Ma non si è mai liberata del vuoto. Lo porta con sé, come una seconda pelle. Non ha mai parlato troppo, ma ogni tanto, riemerge una sola frase, ripetuta come un rosario: “Mia figlia non ha avuto giustizia.” Nel 2023, per i vent’anni dalla morte, anche Valeria Cherchi, artista e fotografa, ha riportato in luce la vicenda con un progetto espositivo toccante, mostrando quanto il caso Manfredi sia diventato simbolo di un dolore che la Sardegna non ha mai seppellito del tutto. Il progetto non si limita a ricordare Luisa: grida contro il silenzio, quello che ancora oggi avvolge una storia senza colpevoli. Perché l’assassino è ancora libero, forse lontano.

Un grilletto senza nome

Vent’anni. Vent’anni di domande sospese come panni stesi ad asciugare sotto un cielo senza sole.
Chi ha premuto quel grilletto? Chi ha deciso che una ragazzina di quattordici anni, con un sorriso ancora da completare, dovesse morire in silenzio su un balcone? Non ci sono colpevoli.
Nessuno ha mai pagato per quel delitto, nessun processo, nessuna sentenza, nessuna verità ufficiale. Solo ipotesi. E in tutto questo silenzio assordante, c’è un altro nome che continua a bruciare: Matteo Boe. Dopo una vita di sequestri, evasioni, sangue e clandestinità, Boe è tornato uomo libero nel 2021. Oggi vive lontano dai riflettori. Cammina lontano, ma il rumore del suo passato lo segue ovunque. Luisa è stata sepolta, ma la storia no.
Lei è diventata simbolo, ferita, cicatrice. Il suo nome ogni 25 novembre è un grido che attraversa l’Italia. Non c’è giustizia in questa storia, c’è solo memoria. E la memoria, si sa, è una condanna lenta, che non risparmia nessuno.

prova
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