
Un uomo ha ucciso una donna con cui aveva avuto ( forse ) una relazione. Lo ha fatto nella propria tenuta, tra Palau e Arzachena, e ha nascosto il corpo. Poi ha cercato di fuggire. Fermato dai carabinieri, ha confessato.
La vittima è Cinzia Pinna, 33 anni, scomparsa l’11 settembre. L’autore del delitto è Emanuele Ragnedda, 41 anni, imprenditore vitivinicolo molto noto in Sardegna.
La notizia è stata confermata ieri, 24 settembre. Ma già prima che i resti di Cinzia fossero ufficialmente ritrovati — su indicazione dello stesso Ragnedda —, la stampa aveva tracciato un profilo dettagliato dell’uomo: imprenditore brillante, erede di una storica famiglia del vino, ideatore del Vermentino “Disco Volante”, venduto fino a 1.800 euro a bottiglia.
Molto meno spazio è stato dedicato a Cinzia Pinna. La donna è scomparsa. È stata uccisa. Ma nei resoconti mediatici, il suo nome sembra un dettaglio secondario. Si parla più del vino che della vittima.
Emanuele Ragnedda non è un uomo qualsiasi. Figlio e nipote dei fondatori della rinomata cantina Capichera (poi ceduta), è diventato noto per aver fondato l’azienda vitivinicola Conca Entosa e per la produzione del bianco “Disco Volante”, considerato tra i vini più cari d’Italia. Il suo volto è ben conosciuto non solo nel circuito degli imprenditori sardi, ma anche sulla stampa di settore e nei contesti dell’enogastronomia d’élite. Anche per questo, nel momento in cui la notizia del suo fermo è arrivata, l’attenzione mediatica si è concentrata prima sulla sua identità imprenditoriale che sul fatto: un femminicidio.
A sottolineare questa grave asimmetria è stato l’avvocato Michele Zuddas, in un post diventato rapidamente virale, che denuncia un modello narrativo ricorrente: “C’è un limite che ogni cronaca degna di questo nome non dovrebbe mai oltrepassare: quello che separa il racconto dei fatti dal compiacimento per i cliché sociali. […] Il dramma reale, quello di una vittima che meriterebbe rispetto e silenzio, diventa il fondale di un copione vecchio come il patriarcato.”
Zuddas osserva come la stampa abbia offerto, ancora una volta, un’immagine rispettabile e “umana” dell’omicida, mentre la donna uccisa è stata presentata in modo vago, marginale, e con accenni a presunte fragilità. Una narrazione tossica, che finisce per rovesciare i ruoli morali: l’uomo diventa “comprensibile”, la donna “problematicamente fragile”.
La denuncia di Zuddas non è un’impressione isolata, ma trova conferma in anni di studi sulla rappresentazione mediatica della violenza di genere in Italia. Secondo la ricercatrice Natascia Mandolini, le cronache giornalistiche “tendono a ridurre la vittima a un elenco di errori o fragilità, mentre il carnefice è descritto attraverso il lavoro, i successi e il suo ruolo sociale” (Femminicidio, prima e dopo – Università di Bologna).
A rafforzare questa tesi arriva l’analisi quantitativa condotta da Paolo Orrù (2024), basata su oltre 1.200 articoli: in ben due casi su tre, l’omicida viene rappresentato in termini positivi — come lavoratore, padre, uomo stabile — mentre la vittima appare spesso come fragile o “problematicamente” segnata da un passato difficile (ResearchGate).
Infine, uno studio promosso da UNAR (2024) sintetizza con chiarezza il cuore del problema: “Il frame narrativo dominante è quello del delitto passionale, che tende a giustificare l’omicida e a colpevolizzare la donna per la sua condotta di vita.” Una dinamica culturale radicata, che continua a filtrare la realtà attraverso schemi tossici e profondamente ingiusti.
Il lessico giornalistico non è mai neutro. Quando si sceglie di raccontare l’omicida come “figlio di imprenditori del vino”, si contribuisce — anche involontariamente — a una narrazione che umano-lizza l’assassino e marginalizza la vittima. Come ha scritto Valigia Blu, in una guida dedicata al tema: “Raccontare un femminicidio indugiando su dettagli morbosi o colpevolizzando la vittima significa contribuire alla cultura che lo ha reso possibile.” E quando la cronaca si concentra sul curriculum del carnefice e dimentica la storia della donna uccisa, contribuisce a riscrivere la realtà in modo sbagliato, pericoloso, e spesso complice.
Come conclude Zuddas nel suo post: “Chi scrive così non fa informazione ma perpetua un modello. […] Questa non è cronaca ma un racconto avvelenato, un vecchio copione patriarcale che il giornalismo dovrebbe avere il coraggio di stracciare.”
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