"Nel carcere di Uta si muore". Oggi un altro suicidio: è il terzo in trenta giorni

Tre suicidi in un mese, e un quarto sventato in extremis. Nel carcere di Uta si muore, come si può leggere in una famosa scritta sul muro. Negli ultimi trenta giorni, sono morti in tre: uno a fine dicembre, il secondo nei primi giorni del 2025. La settimana scorsa c’è stato un tentato suicidio, e questa mattina si è verificato il terzo decesso. Un caso ogni settimana. Con questo ritmo, i morti perdono la loro identità e diventano numeri. E siccome la reiterazione provoca assuefazione, anche alla tragedia ci si abitua. Diventa un qualcosa di normale, insomma. “Ne è morto un altro”.

Tutte le cause del malessere

Irene Testa, garante regionale dei detenuti, elenca tutte le cause che portano al suicidio nel carcere di Uta: “Il sovraffollamento; la convivenza forzata in spazi troppo stretti: una cella per due diventa una cella per quattro. Carenza di supporto sanitario e mancanza di cure adeguate per i detenuti con disturbi psichiatrici; inefficienza del sistema sanitario penitenziario a causa della burocrazia e della mancanza di medici specializzati nella cura del detenuto; cronica mancanza in Sardegna di strutture dedicate a chi soffre di problemi psichici; mancanza di una rete di supporto familiare per i detenuti stranieri”.

Sovraffollamento e isolamento: un mix letale

Le celle di Uta ospitano spesso il doppio dei detenuti previsti. La convivenza forzata in spazi ristretti, combinata con condizioni igieniche precarie, crea un ambiente insostenibile. A peggiorare la situazione, l’utilizzo dell’isolamento per i detenuti a rischio suicidario, una misura che invece di proteggere aggrava il loro disagio. “Mettendoli soli, senza coperte, lenzuola o talvolta vestiti, si amplifica la loro disperazione”, denuncia Testa.

Carenza di supporto sanitario

Da alcuni anni, la gestione della sanità carceraria è passata dal Ministero della Giustizia alle Asl regionali, ma i risultati sono stati disastrosi. I medici spesso non hanno esperienza specifica per trattare i detenuti, e la burocrazia ritarda diagnosi e cure. “Molti detenuti con gravi disturbi psichiatrici o dipendenze non trovano risposte adeguate, e l’isolamento viene usato come unica soluzione”, spiega Testa.

Strutture insufficienti e mancanza di risorse

La Sardegna dispone di una sola Rems, con soli 16 posti, per detenuti che necessitano di trattamenti psichiatrici intensivi. Questo lascia molti senza assistenza adeguata, intrappolati in celle inadatte a gestire il disagio mentale. Gli stranieri, privi di reti di supporto familiare, sono spesso i più vulnerabili.

Un sistema che disumanizza

Il racconto di Testa evidenzia come i suicidi siano il sintomo di un problema sistemico. “Il carcere dovrebbe rieducare e reintegrare, non distruggere. Ma oggi i detenuti sono numeri, non persone” sottolinea “del resto anche gli agenti della polizia penitenziaria soffrono di altrettanto gravi problemi. E a loro vanno i miei ringraziamenti. E’ proprio il sistema, che non funziona”. La soluzione? Investire in strutture, formazione del personale e comunità di recupero alternative, perché l’isolamento non è mai una cura per il disagio umano.

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