Testamento biologico, l'avvocato Renato Chiesa: "La Sardegna prenda esempio dalla legge toscana"

Testamento biologico

L’avvocato Renato Chiesa è in prima linea nella tutela del diritto dell’autodeterminazione dei cittadini già da diversi anni. Quando è esploso il caso Englaro, nel primo decennio del secolo, Chiesa è stato uno dei promotori per la legge sul testamento biologico. Già nei primi anni 2000, attraverso l’associazione Articolo 2, da lui presieduta, ha organizzato incontri di alto profilo con figure chiave come Beppino Englaro e rappresentanti del mondo giuridico e religioso, ponendo le basi per una riflessione pubblica sulla necessità di una normativa chiara ed efficace.

Attualmente è il referente dell’associazione Luca Coscioni, un’organizzazione che sta promuovendo battaglie per il riconoscimento delle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) e il rafforzamento delle garanzie normative sul tema. L’attività legale di Chiesa e il costante impegno nella difesa dei diritti civili lo rendono una figura di riferimento nel panorama giuridico e istituzionale nazionale.

In Toscana è stata approvata una legge regionale che amplia le disposizioni sulla fine vita. Crede che la Sardegna dovrebbe seguire questa strada?

Credo che sarebbe un passo avanti importante. La normativa nazionale, pur riconoscendo il diritto all’autodeterminazione, ha ancora molte lacune nella sua applicazione concreta. Alcune regioni, come la Toscana, hanno deciso di colmare questi vuoti con strumenti normativi più chiari ed efficaci. Sarebbe auspicabile che anche la Sardegna si muovesse in questa direzione, adottando soluzioni che rendono più semplice per i cittadini esercitare un diritto che è già sancito dalla legge.

Quali sono le caratteristiche principali della legge toscana?

È una legge ben scritta, perché non si limita a riaffermare principi generali, ma introdurre strumenti concreti per garantire il rispetto della volontà delle persone. Prevede un iter semplificato per la registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (Dat), che consente ai cittadini di dichiarare con maggiore facilità le proprie volontà riguardo ai trattamenti sanitari. Inoltre, potenzia le cure palliative e domiciliari, garantendo che chi sceglie di non sottoporsi a determinate terapie possa ricevere un’assistenza adeguata fino alla fine. Un altro aspetto fondamentale è la formazione specifica per medici e operatori sanitari, che aiuta a superare le resistenze ea rendere l’applicazione della normativa più omogenea.

Qual è il problema principale nella normativa attuale?

Il problema è l’applicazione concreta della legge. Anche se la normativa esiste, capita che le disposizioni anticipate di trattamento non vengano rispettate. Ci sono situazioni in cui le volontà espresse dai pazienti non vengono eseguite per resistenze culturali, difficoltà burocratiche o incertezze interpretative. Questo naturalmente può rappresentare un problema. Le leggi devono essere chiare e applicabili, altrimenti diventano solo dichiarazioni di principio prive di effetti reali.

Come si potrebbe migliorare la situazione?

Ci sono due fronti su cui bisogna lavorare: il primo è quello culturale, il secondo è quello normativo. Sul piano culturale, è fondamentale che ci sia una formazione adeguata per il personale medico e sanitario, affinché sappiano applicare la normativa senza esitazioni e senza temere conseguenze. Sul piano normativo, servono regole più chiare per rendere accessibili e vincolanti le DAT, così che nessuno possa aggirarle o ignorarle. Un’altra questione cruciale è la tutela legale delle persone, perché se le volontà di un paziente non vengono rispettate, i familiari devono sapere con certezza cosa fare e a chi rivolgersi.

Lei si occupa di questo tema da molti anni. Com’era la situazione prima della legge 219 del 2017?

Era un contesto molto più complesso. Non esisteva una normativa chiara, quindi chi voleva far valere le proprie volontà di trovare soluzioni alternative, spesso con ricorsi in tribunale. Noi, per esempio, utilizzavamo il ricorso all’amministrazione di sostegno per nominare un soggetto che avesse il compito di far rispettare le volontà di una persona nel caso in cui questa fosse caduta in uno stato vegetativo o in una condizione irreversibile. In alcuni casi i tribunali accoglievano queste richieste, in altri le respingevano, proprio perché mancava un quadro normativo chiaro.

C’è ancora resistenza su questi temi?

Sì, e credo sia normale. La fine vita è un argomento che tocca aspetti personali, etici e religiosi; quindi, è inevitabile che ci siano posizioni diverse. È importante, però, che il dibattito non impedisca l’applicazione di un diritto già riconosciuto. Ognuno deve essere libero di scegliere, sia chi decide di esprimere disposizioni anticipate di trattamento, sia chi preferisce non farlo per motivi religiosi o personali. Quello che conta è garantire la possibilità di scelta per tutti.

Se una persona oggi volesse esprimere la propria volontà, saprebbe come fare?

Qui sta un altro problema: la scarsa informazione. Molte persone non sanno nemmeno che esiste la possibilità di registrare le proprie DAT e, se lo sanno, non sanno dove andare o quali documenti presentare. Anche questo è un aspetto su cui bisognerebbe intervenire, semplificando le procedure e garantendo una maggiore diffusione delle informazioni.

Quale sarebbe il prossimo passo auspicabile?

Credo che sia fondamentale rafforzare gli strumenti di tutela e di controllo, per garantire che la volontà del paziente venga sempre rispettata. È altrettanto importante che chi opera in ambito sanitario abbia regole chiare e strumenti adeguati per applicarle. La legge toscana rappresenta un buon esempio, perché riesce a coniugare questi aspetti. È su modelli come questo che bisogna lavorare, per rendere il diritto all’autodeterminazione un principio effettivo e non solo teorico.

prova
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