
Arbus è un angolo dimenticato di Sardegna, un luogo dove la terra custodisce storie mai raccontate.
Cinquanta chilometri di costa selvaggia, punte rocciose che si tuffano nel mare, un paesaggio aspro e solitario, perfetto per chi cerca il buio e il silenzio. Qui, tra miniere abbandonate e strade sterrate, il tempo sembra essersi fermato. Ma il silenzio di Arbus ha una voce sottile, una voce che sussurra storie di sangue. Perché c’è stata una notte che nessuno ha dimenticato.
La notte in cui il mare ha smesso di coprire le urla.
La notte in cui l’orrore ha preso il nome del Mostro di Arbus.
Il 2 settembre 1982, un uomo e una donna arrivano sulla Costa Verde.
Lui si chiama Siegfried Heilmann, ha 41 anni ed è un dirigente di banca di Monaco di Baviera.
Lei è Marie Heide Jager, 25 anni: è un’assistente sociale di Francoforte.
Non sono marito e moglie. Sono amanti. Hanno lasciato tutto per una vacanza clandestina. Viaggiano su un camper Volkswagen T2 bianco e verde. Si appartano in un luogo isolato. Lui spegne il motore. Lei lo segue nel retro del camper. Si lasciano andare, si ubriacano, le risate si intrecciano ai baci, si stringono. La notte è loro. Per poco. Qualcuno li sta guardando. Un’ombra li osserva, nascosta tra la vegetazione. Occhi fissi su di loro. Aspetta. Loro non lo sanno, ma sono già morti.
4 settembre 1982. È una mattina come tante per Mario, sottoufficiale dell’Aereonautica, che ha preso l’abitudine di passeggiare lungo la costa con il suo cane. Mario avanza tranquillo, e a
qualche metro di distanza, seminascosto dalla vegetazione, vede che c’è un camper bianco e verde. Un dettaglio lo colpisce subito: Il lunotto posteriore è in frantumi. Un brutto presentimento gli attanaglia lo stomaco.
Accelera il passo. L’aria si fa densa e pesante, si avvicina. Il cane si irrigidisce, ringhia.
Allunga la mano e spinge la portiera del camper.
Dentro, l’orrore lo colpisce con la forza di un pugno. Il sangue gli si gela nelle vene.
Due corpi. Nudi. Abbandonati in una posa innaturale. Un uomo e una donna. Mario si avvicina ancora, la paura lo attanaglia. L’uomo è disteso supino, indossa solo la biancheria intima. Il petto devastato da un colpo di fucile. Un secondo colpo, quasi un’esecuzione, l’ha raggiunto vicino all’orecchio. Il sangue è ovunque, rappreso sulle pieghe dei sedili, sul pavimento, sul vetro. Il volto è coperto da un maglione, come se qualcuno avesse voluto cancellare la sua identità.
La donna invece è completamente nuda. Il killer l’ha stuprata, le ha poi avvolto un asciugamano attorno alla nuca e le ha sparato un colpo alla base del cranio. I corpi sono li da due giorni, immobili.
Gli investigatori arrivano in fretta. La scena è un’istantanea dell’orrore. L’arma del delitto? Un fucile a canne mozze.
Qualcuno parla di un rapinatore senza scrupoli, qualcun altro mormora di un killer perverso che ha scelto le sue vittime con la precisione di un cacciatore. I giornali si scatenano, il caso diventa un’ossessione. Si sospetta perfino della moglie di Siegfried, tradita e furiosa per la scappatella. Gli inquirenti sono confusi. Non ci sono prove. Non c’è Dna. Non c’è una pista concreta. Solo il vuoto. Chi ha ucciso quella notte è ancora in libertà. Il caso si impantana. Gli anni passano, fino a quando qualcuno si fa avanti.
Inizio anni 90, il commissario Felice Maccioni rientra in Sardegna. Siede nel suo ufficio, apre i fascicoli degli omicidi irrisolti ad Arbus. Davanti a lui una scia di sangue che si allunga nel tempo come un’ombra sinistra. Delitti che sembrano scollegati, ma che pian piano rivelano un filo comune. Felice Maccioni, in questo momento, ha un’intuizione che si rivela decisiva: c’è un’unica mano dietro la morte di più persone. Ogni volta che il sangue ha macchiato Arbus; ogni volta che un omicidio è rimasto senza un colpevole, c’è sempre lui.
Sergio Curreli.
Un pastore. Un uomo dai lineamenti duri. Con lo sguardo di chi non fa domande e non accetta consigli. Sposato con Daniela Muntoni, ha due figlie. Sergio Curreli è un marito violento e un padre assente. Daniela, la moglie, vive in un incubo fatto di tradimenti, percosse e fame. In paese conoscono Curreli e nessuno osa mettersi contro di lui. Ma il commissario Felice Maccioni ha un tarlo che gli scava nella testa: l’auto di Curreli. Il pastore gira con una Lancia Delta HF Integrale, un’auto da corsa, un’auto da soldi veri. Troppo, troppo per un pastore. Da dove vengono i soldi? Felice Maccioni riapre i fascicoli e inizia a mettere insieme i pezzi. Il commissario lo interroga, Curreli parla. La verità sta per emergere.
Il racconto dell’indagato riporta Maccioni indietro nel tempo fino al 22 settembre del 1986 quando Antonio Frau, pastore, è stato trovato impiccato. Il suo corpo penzolante da un albero, il volto gonfio e violaceo, deformato dall’agonia. Suicidio? Così è stato classificato nelle indagini che hanno seguito la sua morte. Ma quella non è stata una morte scelta: è stata una condanna eseguita. Frau ha avuto un alterco con un pastore, non sapeva di essersi messo contro la gente sbagliata. Possedeva 8 milioni di lire, un bottino troppo invitante. È stato strangolato con un cappio improvvisato. Il nodo si è stretto, l’uomo è morto soffocato. “Una burla, il cappio è sfuggito” racconta Curreli al commissario durante l’interrogatorio.
L’indagato continua con le sue rivelazioni, è il turno di Luigi Melis, il macellaio della zona. Conosceva bene la carne, il sangue, le lame affilate. Non immaginava che un giorno sarebbe stata lui la preda. Il 6 maggio 1990 viene assassinato con un colpo di fucile in pieno volto. Un’esecuzione spietata. A premere il grilletto c’era Sergio Curreli, ma l’ordine di morte lo ha dato qualcun altro: la moglie della vittima, Rina Ruggeri. Il movente? Luigi Melis voleva cambiare vita, lasciare la macelleria per diventare pastore come tanti suoi amici. La vita in campagna era il suo sogno.
La moglie però non era affatto d’accordo: l’attività di macelleria garantiva un benessere economico a cui Rina Ruggeri non voleva rinunciare. E così prese una decisione. Due milioni di lire bastano per comprare l’omicidio di suo marito ingaggiando l’assassino di zona: Curreli. Che aveva accettato senza esitazione. Ed ecco che il killer si è avvicinato a Melis e gli ha sparato in faccia. Il sangue ha imbrattato la strada. La vedova ha incassato il lutto e Curreli ha incassato il pagamento. Tutti contenti.
Più Curreli parla e più il puzzle che il commissario Maccioni sta costruendo prende forma. E la confessione giunge al termine con l’ultimo omicidio. Un’auto bruciata, ridotta a un cumulo di lamiere fumanti, abbandonata in una discarica a Marrubiu. Dentro c’era un cadavere carbonizzato. Il corpo apparteneva a Moderno Tuveri, 35 anni, tossicodipendente. Tuveri comprava droga da Curreli. Ma come spesso accade, i clienti si indebitano e in quel caso Curreli non perdonava. Un colpo di fucile in faccia – il marchio di fabbrica – e il cadavere di Moderno è stato dato alle fiamme. Con quest’ultimo racconto Curreli non parla più. Per ora.
È il 1992 quando il pastore pluriomicida finisce in carcere.
Ma il commissario Felice Maccioni ha ancora un caso aperto. E in questo momento che gli viene un sospetto, un’altra intuizione. E ci azzecca di nuovo: vuoi vedere che Curreli c’entra anche con la coppia di turisti tedeschi? Bingo.
Perché le risposte arrivano e arrivano da chi meno te le aspetti. Daniela Muntoni, la moglie di Curreli, inizia a parlare mentre il marito è in carcere. E quello che racconta ha il sapore del macabro.
Parla di gite inquietanti, parla di come suo marito la portava sui luoghi degli omicidi come fossero trofei di caccia. All’inizio Daniela pensava che fossero storie esagerate raccontate da un uomo di campagna per darsi un tono.
Ma nel 1992, dieci anni dopo il duplice delitto degli amanti tedeschi, Daniela è venuta a sapere una cosa: Lo Stato della Germania ha messo una taglia di 20 milioni di lire sulla testa dell’assassino dei due turisti tedeschi del camper. E Daniela Muntoni improvvisamente ha avvertito che suo marito è cambiato: è molto nervoso e agitato.
Daniela lo ha osservato e studiato. E ha capito. Suo marito è un killer. Un mostro.
Il commissario Maccioni raccoglie la deposizione di Daniela Muntoni e interroga in carcere per la seconda volta Sergio Curreli. L’inquirente vuole strappargli la confessione più preziosa: chi ha ucciso i due tedeschi. E Sergio Curreli non nega di averli ammazzati. Anzi lo racconta lui stesso. Li ha massacrati per vendicarsi.
“Li ho uccisi per vendicare Gelosa” ammette. Gelosa? Si. La sua cagnetta da caccia. Curreli la amava, Gelosa era il suo orgoglio, la sua compagna nelle battute di caccia. E quando il camper con la targa tedesca l’ha travolta, lui ha sentito un dolore atroce, viscerale. Loro non si sono fermati, non si sono scusati. Ubriachi, hanno alzato una mano e l’hanno liquidato con un gestaccio. Il Mostro di Arbus li ha seguiti e osservati, aspettando il momento giusto per attaccarli.
Quando viene interrogato, Curreli racconta il delitto con dettagli che nessuno avrebbe dovuto conoscere e dice qualcosa che segna la sua condanna definitiva. “Li ho uccisi con un fucile calibro 20”. Un’informazione che solo l’assassino poteva conoscere. Gli inquirenti riesaminano le prove balistiche con strumenti più moderni, ed ecco la conferma: Il fucile che ha ucciso i due turisti non è un calibro 16, come si pensava inizialmente. È proprio un calibro 20. Fine della partita.
Le sue stesse parole lo tradiscono. La condanna arriva. In quello stesso anno viene condannato all’ergastolo. Nonostante tutto continua a dichiararsi innocente. Forse perché nella sua mente non ha mai sbagliato davvero. E allora una domanda resta sospesa nell’aria: un uomo come lui, chiuso tra quattro mura, potrà mai capire ciò che ha fatto? Forse no. Forse nella sua testa è ancora lì, nelle campagne di Arbus, a stringere un cappio, a caricare un fucile e a pensare: “Questa è la mia giustizia”. Ma stavolta non c’è nessun grilletto da premere e nessuna corda da tirare. Solo lui, il tempo e un silenzio eterno, quello che nessuno, nemmeno lui potrà mai strangolare.
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