La Uno bianca e il sangue sardo nella scia di morte

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L’asfalto brilla sotto i fari, nero lucido come una bara chiusa male. Il silenzio si tende, come un elastico prima dello schiocco. È notte. Una strada secondaria alle porte di Bologna si stende tra i campi, interrotta solo da una palazzina mezza spenta e dal rumore lontano di un motore.
Il silenzio dura poco. Una Uno bianca accelera all’improvviso, scendono due uomini, sparano.
Senza parole, senza volto, senza esitazioni. Sul selciato resta un corpo, e intorno solo schegge, vetri, sangue. Non c’è tempo per chiedersi chi siano, né perché abbiano premuto il grilletto.
Perché la Uno riparte, e con lei scompare ogni risposta. È il 20 aprile 1988. Un giovane carabiniere sardo, viene giustiziato. Il suo nome verrà dimenticato in fretta, ma la macchina, quella no, diventerà leggenda. Anni dopo, nel cuore silenzioso della Sardegna, il nome di uno dei killer più odiati d’Italia comparirà nell’elenco dei detenuti del carcere di Uta. Il suo nome è Fabio Savi, ma per molti è solo una cosa: la Uno Bianca.

L’omicidio di Umberto Erriu

Bologna, 20 aprile 1988.
È sera, ma non troppo tardi. Il cielo ha ancora un’eco di luce e in città si accendono le prime finestre e i clacson si mescolano al traffico. Tutto sembra normale. Ma lo è solo in apparenza. Perché da ore, una Fiat Uno bianca gira nei paraggi. Senza meta, senza fretta. Dentro, tre uomini. Sono armati, gelidi, non parlano e non bisbigliano. Alle 21:30 i carabinieri vengono allertati: ci sono movimenti sospetti, forse un’auto rubata. Una pattuglia del Nucleo Radiomobile si mette in moto. A bordo ci sono due militari: Umberto Erriu, 24 anni e Cataldo Stasi, suo collega. In via Gramsci, una Fiat Uno bianca è ferma vicino alla Coop. I due carabinieri si avvicinano. Non sanno che quella non è un’auto qualunque, e che dentro c’è Fabio Savi. Non sanno che stanno incrociando la scia della banda più spietata della storia criminale italiana. Non fanno in tempo a parlare. Fabio Savi apre il fuoco con un fucile a pompa calibro 12. Umberto viene colpito in pieno volto. Il carabiniere cade a terra. Il sangue disegna l’asfalto, la sirena continua a suonare, ma non serve più.
Muore all’istante. Il collega resta gravemente ferito, ma riesce a reagire, a sparare, a chiamare rinforzi. I killer si dileguano. La Uno bianca sparisce nella notte. Non è un conflitto a fuoco: è una condanna eseguita sul marciapiede di una città attonita.

Il carabiniere sardo con il cuore in trincea

Oristano, 21 gennaio 1964. In una casa dove l’Arma è una seconda pelle, nasce Umberto Erriu. Figlio di un appuntato dei carabinieri, cresce tra divise appese e parole d’ordine taciute. È un ragazzo riservato, determinato, uno di quelli che si allenano senza aspettare applausi. Corre nei campi sportivi di Oristano, eccelle nel mezzofondo, ma la sua vera corsa comincia quando decide di servire lo Stato. A vent’anni si arruola nei Carabinieri. Dopo un passaggio al Centro Sportivo dell’Arma a Bologna e al 2º Battaglione Liguria di Genova, viene trasferito alla Stazione di Castel Maggiore. Ha solo 24 anni, ma è già in prima linea. La sua è una vita fatta di turni, pattugliamenti, controlli e sacrifici. Umberto è un carabiniere che ha scelto il rigore come vocazione non come mestiere. Non sa però che quel 20 aprile incrocerà la furia glaciale di una banda che segnerà la storia criminale italiana. Muore cosi, con l’uniforme ancora addosso e il coraggio in faccia a soli 24 anni. Senza sapere che quella notte sarebbe entrata nella storia. Per l’Italia è l’inizio di una mattanza. Per la Sardegna, è il primo nome inciso in una storia di sangue che nessuno dimenticherà più.

Il mistero della Uno Bianca

Nei mesi successivi all’omicidio di Umberto Erriu, le strade dell’Emilia-Romagna si trasformano in un campo di guerra. Le prime cronache parlano di rapine, furti e aggressioni fulminee. Ma è qualcosa di diverso, qualcosa che sfugge. Le vittime aumentano, I sopravvissuti non riescono a descrivere i volti, tutto accade in pochi secondi. Sempre con la stessa auto: una Fiat Uno bianca.
Questo è l’unico dettaglio inconfondibile che rimane. La Uno bianca che c’è ma poi sparisce. Nessun testimone utile, nessun errore, ogni colpo è eseguito con precisione militare.

1987-1994. Quasi cinque miliardi di lire rubati, 24 morti, 102 feriti. Nessuna pista sicura, solo panico, solo sangue. Gli investigatori navigano nel buio. Pensano a una banda comune, ma i dettagli non tornano. Troppe armi da guerra, le modalità da addestramento, troppa freddezza, troppa organizzazione. La ferocia è fuori scala.

Senza volto, senza pietà

19 febbraio 1989, Pilastro di Bologna. Tre agenti: Tiziano Della Ratta, Cataldo Stasi e Mauro Mitilini, vengono crivellati durante un pattugliamento notturno.

4 dicembre 1990, Cesena. Durante una rapina in un distributore, i banditi aprono il fuoco senza motivo, muore un ragazzo di ventuno anni, Luca Colombari. Non aveva reagito, non aveva guardato, aveva la colpa di essere solo li. Come lui altre vittime civili: Primo Zecchi, ucciso il 6 ottobre 1990 e Massimiliano Valenti ucciso il 24 febbraio 1993.

3 gennaio 1991 Bologna. Due carabinieri, Andrea Moneta e Otello Stefanini, vengono giustiziati con colpi alla nuca. Non hanno nemmeno il tempo di parlare, cercavano solo di fermare la Uno sospetta. La Uno bianca si muove come un fantasma, i corpi aumentano e gli interrogativi si moltiplicano. Chi sono? Dove si nascondono? Perché sparano anche quando non serve? Bastano pochi mesi per capire che non si tratta solo di soldi. C’è qualcosa di ideologico, di militare, di sistematico. Si spara a chi guarda, si spara a chi intralcia. Si spara per uccidere, non per fuggire.
La Uno Bianca diventa un incubo. Non c’è sicurezza, non esiste una logica, c’è un terrore che scorre su quattro ruote anonime. Le indagini si accartocciano su sé stesse. Nessuno immagina la verità, nessuno sospetta quello che sarà il colpo di scena più spietato della storia giudiziaria italiana: i killer non arrivano dalla malavita, arrivano dalle caserme.
Ma per scoprirlo ci vorranno anni. E molte altre bare.

I fratelli insospettabili

Non sono balordi di strada, non hanno il volto sfatto della droga, né il passo claudicante di chi ha dormito nei sottoscala. I killer della Uno Bianca indossano la divisa dello Stato, sono poliziotti, e si chiamano Savi. Fabio, Pierluigi e Roberto. Tre fratelli legati dal sangue e dall’odio. A capo c’è Fabio Savi, l’uomo che guida, che spara, che ride dopo ogni colpo. Quello che tiene insieme la banda come un branco di lupi. Accanto a lui, Pierluigi Savi, agente scelto della polizia in servizio a Bologna. Ha un’arma di ordinanza, un distintivo e il potere di passare inosservato. Il più giovane, Roberto, partecipa in modo marginale ma sa tutto. Anche troppo. Quando i nomi dei fratelli emergono, l’Italia si inchioda. Nessuno riesce a crederci.
Per sette lunghi anni hanno agito sotto copertura, uccidendo civili, carabinieri, agenti, senza mai lasciare una traccia utile. Il volto della Uno Bianca non è quello di una banda di disperati. È il volto inquietante della devianza dall’interno. Fabio e Pierluigi partecipano attivamente a quasi tutte le rapine e agli omicidi. Le testimonianze raccontano di un odio profondo verso lo Stato, un risentimento che si trasforma in piombo. Ma ciò che sconvolge di più è l’efficienza con cui agiscono: piani dettagliati, movimenti precisi. Nessuna sbavatura. Ci mettono sette anni ad inchiodarli.
Perché sono dentro il sistema e lo usano per colpire.

Fabio Savi tra i fantasmi di Uta

È il 1994 quando le manette scattano ai polsi di Fabio Savi. Il capobanda della Uno Bianca, il volto che sparava e comandava, viene catturato. È la fine di una lunga scia di sangue, ma non del suo nome. Condannato all’ergastolo insieme ai fratelli, inizia il suo viaggio nel sistema carcerario italiano. Ma è in Sardegna, il 22 dicembre 2005 che la sua ombra si allunga di nuovo.
Fabio Savi viene trasferito nel carcere di massima sicurezza di Uta, alle porte di Cagliari.
Un muro di cemento, filo spinato e cielo aperto. Ma fuori da quelle mura, il suo nome brucia ancora. Nel 2018 Fabio Savi chiede di essere trasferito nel carcere di Bollate, a Milano. Lì si trova già suo fratello Roberto.
La motivazione ufficiale è quella della “rieducazione”. A Bollate ci sono laboratori, attività lavorative, possibilità di reinserimento. Il trasferimento viene concesso. I due fratelli, complici di 24 omicidi e 103 feriti, si ritrovano dietro le stesse sbarre. Scoppia la polemica.
I familiari delle vittime parlano di scandalo, di schiaffo morale.
C’è chi dice che lo Stato dimentica in fretta. Chi grida che il perdono è un lusso, e che la rieducazione non cancella il sangue. In Sardegna, la notizia si diffonde come un sussurro tra le pagine dei giornali. Il nome di Savi non fa più paura, ma fa ancora male.

Una targa per non morire

Uno Bianca. Due parole che ancora oggi fanno tremare.
Non è solo il nome di una banda. È un simbolo oscuro, una ferita ancora aperta nella storia d’Italia.
E per la Sardegna, quel nome ha un volto preciso. Quello di Umberto Erriu, carabiniere di Oristano, ucciso il 20 aprile 1988 a Castel Maggiore. 24 anni con addosso la divisa e ancora tutto davanti.
Tentava di fermare una Fiat Uno sospetta insieme al collega Cataldo Stasi.
Nei sedili anteriori, senza divisa ma con pistole cariche, c’erano i fratelli Savi.
Non lasciarono scampo. Un colpo in pieno volto, poi la fuga. Silenziosa. Come ogni loro crimine.
Oggi, a distanza di oltre trent’anni, il nome di Erriu continua a vivere.
Non sui giornali. Ma nella memoria di Oristano, dove quel ragazzo venuto su tra i campi sportivi e le caserme è diventato simbolo di lealtà e sacrificio.
Nel 2017, i giardini di via Messina, nel quartiere Sacro Cuore dove era cresciuto, sono stati dedicati a lui. Nel 2015, anche una via cittadina ha preso il suo nome.
A lui è intitolata la caserma dei Carabinieri di Molinella (BO), la Stazione di Simaxis e due sezioni dell’Associazione Nazionale Carabinieri: una a Oristano, l’altra a Quartu Sant’Elena.
Ogni anno, tra aprile e maggio, autorità, carabinieri, familiari e studenti si riuniscono per ricordarlo. C’è sua madre, Maria Vitalia Cabiddu, sempre presente.
Porta fiori, ma porta silenzio. Quel silenzio che solo chi ha perso un figlio conosce.

Dietro le sbarre non dietro la coscienza

Fabio Savi, il capobanda, è detenuto in regime di alta sicurezza nel carcere di Viterbo.
Roberto Savi, l’ex agente scelto della Mobile di Bologna, condannato a sei ergastoli, si trova a Novara. Alberto Savi, il fratello minore, anch’egli ergastolano, è rinchiuso nel carcere di Opera, a Milano. Erano poliziotti, ora sono numeri, chiusi tra cemento e silenzio.
Nessuno di loro ha mai mostrato un vero pentimento. Solo richieste di sconti di pena, ricorsi, lettere ai giudici. Ma non tutti gli assassini muoiono. Alcuni invecchiano tra le mura, altri scompaiono tra le carte dei tribunali. E intanto i nomi delle vittime scoloriscono, inchiodati a una targa o a una commemorazione annuale.
Ma la memoria vera non ha bisogno di lapidi. Vive nelle storie raccontate bene. E ricordate a lungo. In Sardegna, il vento tiene vivo il ricordo.
E le madri che hanno perso un figlio non smettono mai di piangere, nemmeno quando gli occhi si asciugano. Perché il sangue che cade sull’asfalto, non evapora mai. Resta lì, tra le radici.
Ad aspettare giustizia anche quando questa fatica ad arrivare.

prova
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