
Piazza Yenne, sabato pomeriggio. Il sole filtra tra le palme e i palazzi ottocenteschi, si rifrange sulle pietre chiare e scivola sugli ombrelloni dei bar dove i cagliaritani sorseggiano caffè e aperitivi con la tipica indifferenza di chi ha già visto passare ogni genere di messia improvvisato. Ai piedi della statua di Carlo Felice — che continua a guardare il Largo, impassibile da due secoli — si consuma invece un piccolo teatro del presente: transenne, microfono, impianto audio, qualche decina di seguaci, raccolti a semicerchio attorno a Enrico Rizzi.
Poi c’è un numero assurdo di agenti delle forze dell’ordine: digos, carabinieri, polizia municipale, uomini in borghese, volanti pronte a intervenire. Una scena surreale: una piazza blindata per poche decine di adoranti e un attivista solo contro il mondo.
Rizzi arriva in auto e scende come si scende per una rivelazione, con il volto contratto, lo sguardo da crociato urbano. Lo accolgono cori, qualche applauso, uno zoccolo duro che lo riprende con lo smartphone. Tutto il resto della piazza — turisti, passanti, camerieri, famiglie con bambini — guarda la scena da lontano, con l’espressione che si riserva alle performance teatrali troppo improvvisate: un misto di curiosità, disagio ee leggero imbarazzo.
Ma lui è lì per giudicare, non per incontrare. Non per ascoltare. Non per parlare con. È lì per parlare contro. Il cammello Rodolfo, il carnevale di Ovodda, i pastori, i sardi, gli umani in quanto tali.
Nel mirino non c’è infatto solo il cammello portato tra le maschere di un paese sardo. C’è un intero universo culturale: la Sardegna pastorale, simbolica, rituale. Una tradizione che non si conosce, ma si condanna. Per Rizzi non esiste differenza tra folklore e tortura, tra simbolo e crudeltà. L’indignazione è totale, assoluta, impermeabile. E totalitaria. «Siamo la razza più feroce e schifosa che esiste al mondo. Spero che l’essere umano si estingua e liberi questo pianeta», dichiara. Ma subito dopo: gli applausi. Come se l’estinzione riguardasse sempre gli altri.
Ma Sergio Seche, giovane di Ovodda, si avvicina lo stesso. Tende la mano: «Ti ricordi? Abbiamo fatto una diretta assieme». Rizzi non ricambia. Non lo guarda. Non risponde. Sergio mormora: «Manco mi guardi in faccia». E si allontana. È un gesto minimo ma rivelatore: chi ha già deciso dove stanno i buoni e dove i cattivi, non ha bisogno di vedere l’altro. Deve solo ignorarlo. Annullarlo. In quel rifiuto silenzioso c’è tutto il rifiuto del dialogo, dello scambio, della possibilità di uscire dal proprio schema.
Nel mondo rigidamente binario di Enrico Rizzi esistono solo due categorie nette, impermeabili: da una parte noi, i puri, i salvatori, la parte giusta della storia; dall’altra voi, le bestie, i complici, i colpevoli. Non c’è spazio per chi non si allinea. Michele Ladu, l’allevatore di Rodolfo, il cammello diventato simbolo involontario del caso, non viene mai nominato. Non è invitato. Non è cercato. È rimosso.
Come tutto ciò che potrebbe incrinare la narrazione, o semplicemente complicarla. Chi non rientra nello schema, sparisce. Il palco non è un luogo di dialogo, ma un altare da cui si pronunciano sentenze. La parola, invece che strumento per aprire, diventa arma per chiudere.
Ogni possibile sfumatura viene vaporizzata dalla furia della semplificazione morale: o sei con me, o sei contro di me. O sei nel Bene, o sei nel Male. E nel Bene, per definizione, non c’è incertezza, non c’è dubbio, non c’è errore. Il Bene non cerca. Non ascolta. Non sbaglia.
Il Bene, quando è così certo di sé, diventa cieco.
Ma è proprio nella furia moralistica, nell’urgenza di dividere il mondo tra giusti e colpevoli, che si rivela l’aspetto più inquietante. Jung lo chiamava “ombra”: tutto ciò che rifiutiamo di riconoscere in noi stessi — l’aggressività, l’odio, il desiderio di dominio — finisce per essere proiettato all’esterno, sugli altri. Così, chi denuncia la violenza del mondo spesso non fa che replicarla, con altri mezzi. Chi invoca compassione, agisce con disprezzo. Chi dice di amare la vita, arriva a odiare profondamente i viventi.
Il fanatismo animalista, quando si spinge fino alla negazione dell’umano, non guarisce nulla. Non redime. Non salva. Al contrario: mette in scena la stessa logica violenta che pretende di combattere. Solo con una nuova maschera, una nuova giustificazione, e — forse — una coscienza più pulita. Ma non meno cieca.
Alla fine, resta una domanda che non è accusa ma invito, una domanda da farsi piano, con onestà: chi è davvero la bestia? Forse non chi sbaglia, non chi inciampa, non chi porta un cammello al carnevale del suo paese. Ma chi si illude di essere dalla parte giusta in modo così assoluto da non poter più guardare negli occhi nessuno. Forse la bestia è dentro chi smette di vedere l’altro come umano, anche quando sbaglia, anche quando è diverso, anche quando non capisce.
Forse è in chi, pur partendo da un’idea giusta — l’amore per la vita, la difesa dei più deboli — finisce per usare quella stessa idea come un muro, come una spada, come un modo per sentirsi superiore. In un’epoca in cui ogni cosa è spinta agli estremi, anche il bene, se non è temperato dallo sguardo, può farsi strumento di esclusione. Anche l’amore, se non è aperto all’imperfezione del mondo, può diventare un’arma.
E quando lo sguardo si chiude, quando si smette di voler capire, nessuno si salva davvero. Nemmeno chi crede di essere nel giusto. Nemmeno sé stessi.
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