
In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 30 agosto, Beppe Severgnini elenca con precisione chirurgica i sintomi di un’estate diversa, forse peggiore. Il titolo è asciutto, tagliente, perfetto: “La Sardegna eccita gli smartphone”. Non i sensi. Non la memoria. Non lo spirito. Gli smartphone. Quello che Severgnini racconta non è un episodio isolato. È un cambiamento strutturale: la Sardegna, come molti altri luoghi reali, viene sempre più spesso trattata come sfondo da mostrare, non come spazio da abitare.
“Il neo-turista,” scrive Severgnini, “arrivato sull’isola a caro prezzo, ritiene d’avere diritto allo svago (coccolami, viziami!), diritto al posto (in spiaggia, in parcheggio), diritto al trattamento speciale […], e, ovviamente, diritto a mostrare tutto a tutti sui social.” Una frase che non ha bisogno di spiegazioni.
Non si parla più di maleducazione o disattenzione: è cambiato il modo stesso di percepire il viaggio. Il paesaggio non ha più un valore in sé, ma solo in quanto condivisibile. La vacanza non è più esperienza: è rappresentazione.
Nel mondo pre-digitale, la Sardegna — con la sua geografia ruvida, la luce che non perdona, il vento che cambia direzione tre volte al giorno — era un luogo che si imponeva. Bisognava entrarci in punta di piedi, adattarsi, osservare. Oggi è diventata un set aperto, spesso abusato. Severgnini ne dà prova: approdi illegali su spiagge tutelate, graffiti sui graniti, musica da beach party nelle rade silenziose, tuffi acrobatici pensati per il feed di TikTok. Non sono eccezioni. Sono la regola non scritta del turismo ibrido: fisico nei corpi, digitale negli intenti.
È una forma di colonizzazione estetica. L’obiettivo non è conoscere il luogo, ma confermare l’immagine che se ne ha (e che si vuole mostrare). Il fatto di esserci stati conta meno del farlo vedere. Così la Sardegna finisce risucchiata dentro un format — quello della vacanza spettacolarizzata — che con la realtà ha poco a che fare.


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