
Il vento sferza la scogliera di Abbacurrente, portando con sé il sapore del sale e un gelo che sembra non appartenere alla primavera. Le onde si infrangono contro le rocce, urlano segreti che nessuno vuole ascoltare.
L’alba filtra tra le nuvole, un silenzio irreale, carico di domande. E nel cuore di quel silenzio, la morte attende. Sotto quella luce fredda, il corpo di una giovane donna giace immobile. Abbandonata. Come se qualcuno avesse deciso che qui, tra il mare e la solitudine, sarebbe finita la sua storia.
Venerdì 9 settembre 1988.
Sebastiana Bruno si sveglia di colpo, sono le due del mattino. Il televisore è ancora acceso, una sigaretta spenta nel posacenere. Si guarda attorno stordita, attraversa il corridoio, arriva davanti alla camera di sua figlia, il gelo sale lungo la schiena. Il letto è intatto. Alina non è rientrata. E in quell’istante, il cuore di una madre capisce che qualcosa di terribile è accaduto.
Prende il telefono, chiama il marito e i figli. “Alina non c’è, l’avete vista? E’ con voi?”
Ma nessuno sa nulla.
Alina Cossu ha 21 anni. Lavora nella pasticceria Acciaro di Porto Torres. Si alza ogni mattina all’alba, impasta cornetti e serve i clienti sempre con il sorriso. Viene da una famiglia umile e onesta. Il padre lavora negli stabilimenti Heineken, la madre è casalinga. Ha un sogno Alina, quello di studiare biologia all’università, ma per non pesare sui genitori lavora. . E’ una ragazza solare, indipendente, determinata. Vive col passo di chi vuole costruirsi il futuro da sola.
La sera del 9 settembre del 1988 Alina dice al fratello di non passare a prenderla: “Stasera vado alla festa di San Cristoforo, al Villaggio Verde.” Dopo il turno si concede un gelato. E’ elegante, truccata con cura. Indossa una gonna e tacchi alti. Si incammina lungo viale delle Vigne.
Alle 23:15 qualcuno ancora la vede, poi il buio. Alina ora è una ragazza scomparsa.
Alle prime luci dell’alba del 10 settembre la famiglia si presenta alla caserma dei dei carabinieri per la denuncia di scomparsa. Ma ormai è troppo tardi.
cielo si tinge di un azzurro incerto la mattina del 10 settembre, quando due pescatori, Angelo Delogu e il suo amico, avanzano sugli scogli di Abbacurrente, a pochi chilometri da Porto Torres. L’aria è umida, il mare ancora addormentato. Poi, qualcosa li blocca. Angelo strizza gli occhi, crede di vedere un sacco trascinato dalla corrente, poi lo stomaco gli si chiude. E’ un corpo. Una ragazza. Angelo sbianca, spalanca gli occhi terrorizzato, si gira di scatto e urla al compagno: “Corri a chiamare la polizia. Qui c’è un cadavere”.
I carabinieri arrivano in fretta, le sirene squarciano il silenzio della scogliera. Si avvicinano con cautela, ma la scena non lascia spazio alla speranza. Il viso è nascosto dall’acqua, i capelli galleggiano come alghe scure. Qualcuno si china, la gira con delicatezza. Ha la pelle livida, labbra serrate in un segreto che nessuno potrà più sentire.
La ragazza non ha scarpe, né documenti. Sembra gettata lì, senza rispetto, senza storia.
Sulla spiaggia di Abbacurrente, i carabinieri iniziano a mettere insieme i pezzi. La ragazza trovata tra le rocce e la giovane scomparsa a Porto Torres probabilmente sono la stessa persona.
Quando la sorella arriva sul luogo del ritrovamento, non ci sono più dubbi. Un agente solleva il lenzuolo. Quella è Alina. Non esiste parola che possa contenere la disperazione, nemmeno il mare riesce ad inghiottire quel dolore. Il viso è tumefatto, gli occhi sbarrati. Una scarpa di Alina è sparita.
Poco più in là, tra la sabbia, i carabinieri trovano una catenina d’oro, un paio di orecchini e un pacchetto di Marlboro rosse.
La famiglia è distrutta. Lo zio Pietro riesce appena a parlare con i carabinieri. “Com’è possibile? Alina era una ragazza perbene, pensava solo allo studio.”
Ma qualcuno ha deciso che i sogni di Alina dovessero finire li, incastrati tra quelle rocce, senza pietà, senza spiegazioni.
L’indagine parte subito. Il maresciallo ordina di perimetrare la zona, ma è tardi. Troppa gente, troppi occhi. Curiosi, fotografi e pescatori, i passi si mescolano sulla sabbia umida, confondendo le tracce. Il corpo di Alina viene portato via in fretta. Avanza immediatamente l’ipotesi più comoda: Alina si è suicidata. Una ragazza fragile, una delusione d’amore. Poi arriva Il medico legale e la verità si fa più scura. Sul corpo ci sono segni evidenti di violenza. Lividi, ecchimosi, un’impronta di scarpa sulla fronte. E’ un segno che dice che è colpa di qualcuno. Alina non si è buttata. Alina è stata uccisa. Gli investigatori tentano di ricostruire le ultime ore.
Alina è salita su un’auto, qualcuno l’ha portata via, qualcuno che l’ha convinta o costretta.
Forse Alina ha rifiutato delle avance. Una cosa è certa: In quella macchina o forse appena fuori, in quelle ore, si sono consumati attimi feroci di rabbia, violenza e paura.
Alina viene colpita una, due, tre volte. Pugni. Calci. Poi strangolata. Il corpo trasportato fino alla scogliera, buttato in mare. Ma gli errori sono ovunque. La zona del ritrovamento non viene isolata a dovere, le foto sono poche e le prove sono state raccolte di fretta e con poca cura.
Nessuna mappatura e nessun nastro che tenga lontano piedi estranei.
Quella notte Abbacurrente avrebbe potuto raccontare tanto, invece la verità si è persa tra la sabbia e il rumore delle onde.
I carabinieri iniziano a raccogliere testimonianze.
Qualcuno dice di aver visto una Fiat Ritmo chiara nei pressi della scogliera verso mezzanotte. L’auto è riconducibile a un operaio di 23 anni, residente a Porto Torres. E’
Gianluca Moalli. Che fuma Marlboro rosse, e possiede una Fiat Ritmo chiara.
Riferisce di aver passato la serata con la fidanzata, fino a mezzanotte. Poi è tornato a casa.
Ma proprio quest’ultima, che ha l’abitudine ossessiva di controllare il contachilometri dell’auto di Gianluca, racconta di aver notato quella notte un’anomalia: sei chilometri in più del normale. Una distanza che coincide con quella tra la casa di Moalli e la scogliera dove è stato rinvenuto il corpo di Alina. Poi parla un’amica di Alina. Racconta che Gianluca e Alina si erano conosciuti al mare, anni prima. Ma negli ultimi mesi qualcosa era cambiato. Lui la cercava di continuo, si offriva di darle lezioni di guida, la pressava. Troppo. Un’ossessione travestita da gentilezza. “Alina non parlava mai volentieri di lui,” dice l’amica ai carabinieri. Un elemento ancora più pesante, ma mai verificato a fondo riguarda l’impronta di una scarpa ben visibile sulla fronte di Alina. Al primo interrogatorio Gianluca indossa scarpe compatibili con quel segno. Eppure, quelle calzature, per un errore procedurale, per un inspiegabile leggerezza non vengono sequestrate, solo fotografate. Poco dopo, le scarpe sono state buttate e con loro una possibile prova, perduta per sempre.
Nel corso degli anni, frammenti di racconti riemergono come ombre nella nebbia . Voci basse, testimonianze dimenticate. Non c’è una prova, solo voci e memorie sottili.
Nel 1982 una ragazza racconta alla trasmissione: Chi l’ha visto? Un episodio agghiacciante:
“Avevo 18 anni. Camminavo lungo via Balai. Sentivo qualcuno dietro di me. Ho accelerato il passo. Anche lui. Mi si è affiancato, mi ha detto una frase oscena, disgustosa. Ho cominciato a correre. Terrorizzata sono riuscita a tornare a casa. Ma non ho dimenticato”.
Un altro racconto altrettanto inquietante, questa volta a parlare è la madre di un amico di Gianluca Moalli. Riferisce che un giorno Moalli si è presentato a casa sua. “Mi aveva chiesto un uovo. Cosi mi sono girata per aprire il frigo. Mi sono ritrovata con il suo braccio intorno al collo e un coltello a serramanico puntato sulla schiena. Ho cercato di parlargli con calma. Ho provato a farlo ragionare. A quel punto ha mollato la presa, gli ho tolto frettolosamente il coltello dalla mano e lui è caduto in terra, in silenzio.” Ma nessuno di questi episodi ha mai portato a una condanna. Nel 1994 il giudice archivia il caso: “Non luogo a procedere.” Gianluca Moalli esce ufficialmente di scena. Ma l’ombra del dubbio resta, come restano le tante domande senza risposta. Il tempo passa. Le piste si raffreddano. Ma la verità brucia ancora.
Nel 2008, una lettera anonima arriva sul tavolo degli inquirenti. Nessun mittente. Solo l’elenco di quattro nomi nuovi. Quattro possibili volti dietro l’omicidio di Alina Cossu.
Uno di questi è Francesco Ruggiu. Un testimone sente una lite tra lui e la moglie qualche giorno dopo il delitto: “Alina, Alina!” grida la moglie in piena notte.
Si scopre che guida una Fiat Ritmo. Ma le prove sono deboli, fragili, tardive. Il caso viene riaperto, poi chiuso. Ancora una volta.
Nel 2011, a 23 anni dal delitto, il corpo di Alina viene riesumato per una nuova autopsia. Un ultimo disperato tentativo. Ma è troppo tardi. Il tempo ha cancellato tutto.
Poi nel 2013, il colpo di scena che spezza il respiro: Pochi giorni dopo la riapertura delle nuove indagini, Fermo Banfi 73 anni, uno degli indagati, si toglie la vita. Si lancia nel vuoto dal quinto piano dell’ospedale di Porto Torres, dove era ricoverato. Era un ottico, il suo negozio affacciava proprio accanto al bar dove Alina lavorava. Si era sempre professato innocente.
Eppure, nella lettera lasciata agli investigatori, non non si difende, urla: “Ho avuto l’onore della prima pagina dei giornali, meritandomi di essere chiamato mostro.” Poi, il silenzio.
Fermo Banfi lascia il mondo senza spiegazioni ne risposte. Portando con sé il suo segreto o forse la sua verità. Il caso viene archiviato per sempre. La procura si arrende. Non ci sono prove, nessuna svolta. Solo il vuoto e la verità sepolta da qualche parte tra gli scogli e il silenzio.
Alina non ha avuto giustizia. Nessuno ha pagato. Nessuno ha parlato.
“Alina non vuole piazze. Alina vuole giustizia. C’è qualcosa di peggio dell’assassino: “C’è chi l’ha protetto, chi sapeva, chi non ha parlato.” Queste sono le parole della famiglia.
Alina non è un ricordo da commemorare. E’ una voce che chiede giustizia. Una domanda senza risposta. Un urlo soffocato che non smette di farsi sentire.
Ma finche’ qualcuno, da qualche parte, continuerà a raccontare la sua storia, chi l’ha uccisa non sarà mai davvero al sicuro.
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