Castello: “Il suicidio assistito resta suicidio. E la vita non è un bene disponibile”

Giuseppe Castello

Dopo l’approvazione in commissione Sanità del Consiglio regionale sardo del testo unificato per la legalizzazione del suicidio medicalmente assistito (proposta di legge n. 59 – Deriu e altri), si sono levate voci critiche autorevoli. Tra queste, quella del professor Giuseppe Castello, medico e docente di Bioetica presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, che in audizione ha lanciato un monito preciso: «Non esiste un diritto alla morte. Come può non avere dimensione nazionale una legislazione sulle tutele del fine vita, e come può non essere fondata su vita e libertà insieme, non sull’eccezione? Il suicidio non è un evento neutro ma un evento da prevenire».
Castello ha parlato di un passaggio culturale profondo, che interroga la coscienza collettiva e le basi giuridiche della convivenza. «Siamo davanti a un cambiamento di paradigma antropologico. Le Regioni – ha avvertito – se vogliono colmare un vuoto, lo riempiano di assistenza del più alto livello, facilitando nel concreto le cure».

Il docente di Bioetica

Nel suo intervento, Castello ha voluto fin da subito sgombrare il campo da una contrapposizione ideologica tra visione laica e visione religiosa: «Quali siano i valori inviolabili e come tenerli insieme e promuoverli è una questione etica, antropologica, politica e in secondo piano giuridica». Secondo il professore, è chiaro il disegno di chi, partendo dal caso particolare di ricondurre a mera pratica medica l’agevolazione del proposito suicida, mira in realtà al risultato di rovesciare l’intero assetto etico su cui si fonda il patto sociale. È del tutto legittimo che ciascuno possa promuovere una propria visione della vita e dei suoi valori, ma deve essere chiaro che per vincere facile non la può etichettare come “laica” bollando come “confessionali” le visioni concorrenti. Né si può ricorrere al vecchio trucco di dire che c’è un diritto in più – quello di togliersi la vita – e che chi non vuole non lo eserciti. A parte che al diritto di qualcuno corrisponde il dovere di qualcun altro (il dovere di togliere la vita!). Ma chi vede nei tentativi di una legislazione eutanasica un male per la società come può accontentarsi di subirli passivamente senza cercare di intervenire? Se è democrazia lo è per tutti.

Etica plurale, ma non neutra

Castello insiste su un punto spesso sottovalutato nel dibattito pubblico: «In questo senso le questioni di fine vita non sono un problema tra chi crede e chi no, ma tra diverse concezioni del senso della vita». Ogni essere umano, spiega, agisce in base a un sistema di riferimento valoriale: può essere il progresso, l’autodeterminazione, la natura, o anche il vuoto del nichilismo. Ma proprio per questo, avverte, non esiste un’etica neutra o “laica” in senso assoluto: anche chi sostiene la totale autodisponibilità della vita parte da una visione etica.
«Se il fondamento diventa l’autodeterminazione assoluta, allora vita e corpo sono beni di cui si può disporre a piacimento. Ecco perché questa idea non è meno ideologica di altre», afferma.

L’antropologia cristiana e il valore della vita

Per Castello, la visione personalistica fondata sul rapporto Dio-persona è quella più di altre in grado di riconoscere il valore infinito di ogni momento dell’esistenza, anche quello più fragile. «Nella storia dell’umanità, attraverso la figura di Cristo, si rivela una concezione della persona che non può essere subordinata ad alcun criterio di efficienza, utilità o autonomia».
Di fronte a visioni che pongono al centro la produttività, l’autonomia o l’interesse sociale, Castello risponde: «Sì, questi criteri valorizzano aspetti positivi dell’esistenza. Ma, se dogmaticamente estremizzati, escludono, spesso in modo violento, tutto ciò che non vi rientra». Il risultato, secondo il professore, è l’esclusione sistematica dei fragili, dei malati, di chi non corrisponde a un ideale di autosufficienza

Un cambiamento antropologico profondo

Quello che si sta consumando, secondo Castello, è un vero cambiamento di paradigma antropologico: «Stiamo assistendo al passaggio dalla persona come fine alla persona come mezzo». In questo quadro, la vita ed il corpo umano rischiano di essere trattati come un bene disponibile, soggetto a contrattazione o eliminazione in base a criteri esterni.
«Ma la vita – conclude – non è un bene disponibile. Tanto che è il fondamento stesso della convivenza civile e del diritto. Toglierle questo statuto non solo non aumenta la libertà, ma significa spezzare il legame che tiene insieme la società».

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