Costumi, algoritmi e devozione: Sant’Efisio nell’era dei social

Ignazio Sanna Fancello

Ogni anno, l’1 maggio, la Sardegna si ferma per la Sagra di Sant’Efisio. Da quasi quattro secoli, una delle processioni votive più antiche d’Europa attraversa strade e campagne, portando con sé devozione, orgoglio e memoria. Ma oggi, nel 2025, questo rito si muove anche in un altro spazio: quello dei social, dei video in diretta, delle immagini filtrate che trasformano il sacro in spettacolo.

Nel cuore di questa tensione tra eredità e visibilità, tra identità e algoritmo, ci sono i costumi tradizionali sardi: abiti che non vestono solo il corpo, ma la storia. Per molti giovani, rappresentano un legame con le proprie radici. Per altri, un’estetica da esibire.

Ignazio Sanna Fancello, sarto e studioso dell’abbigliamento tradizionale sardo, è una figura di riferimento per la ricostruzione filologica dei costumi dell’isola. Conosce a fondo le varianti locali: distingue un orlo cucito a mano da uno rifinito con i passapunti di Desulo, legge nelle pieghe di un faldone nuorese o nella linea di una giacca logudorese tracce di identità e territorio. Un bottone d’oro, per lui, è un frammento di storia: racconta doti, lutti, lignaggi. Il suo lavoro non è solo conservazione, ma un atto di trasmissione culturale viva e consapevole.

Ecco cosa ha raccontato sul futuro del costume sardo, tra giovani, social media e intelligenza artificiale.

Oggi molti giovani sfilano in costume alla Sagra di Sant’Efisio. Ma è ancora un gesto identitario o sta diventando una rappresentazione estetica pensata per i social?

Entrambe le cose. Ci sono giovani sinceramente legati alla tradizione, che portano l’abito con rispetto, consapevoli del suo significato. Ma c’è anche chi lo vive come una scena da mostrare, un’occasione per “esserci” più che per partecipare. Il costume tradizionale non è un travestimento: è un linguaggio. Racconta chi sei, da dove vieni, chi erano i tuoi nonni. È storia portata sulla pelle. Ecco perché serve attenzione, e anche responsabilità. I social possono aiutare a diffondere, ma non devono svuotare il gesto. Il rischio è trasformare un atto culturale in uno spettacolo passeggero.

In un’epoca dominata da TikTok, Instagram e contenuti brevi, quanto influisce l’occhio digitale sulla percezione della Sagra? Il rito rischia di diventare una cornice per selfie?

Sicuramente il digitale ha cambiato tutto. Oggi si partecipa sapendo di essere osservati, ripresi, rilanciati. E chi guarda da fuori, se non conosce il contesto, vede solo l’aspetto scenico. Ma questo processo è iniziato molto prima dei social: negli anni ’20, con l’Istituto Luce, si costruiva già una narrazione estetica della Sardegna. Abiti ricchissimi, uniformati, per mostrare il folclore a fini politici e turistici. I social sono solo l’ultima tappa di questa spettacolarizzazione. Il punto è: chi detiene oggi gli strumenti per spiegare cosa c’è dietro quella bellezza? Senza conoscenza, tutto diventa superficie.

L’intelligenza artificiale oggi può ricreare abiti, ambienti, persino volti del passato. Ma può anche tramandare il senso di una tradizione vissuta come quella di Sant’Efisio?

L’IA può imitare, mai incarnare. Non conosce la fatica, la fede, il significato di un voto. Non sa cosa vuol dire cucire per mesi un costume autentico e metterlo per un solo giorno, con la gioia e la tensione di chi sente di onorare un’eredità. Può aiutare a catalogare, ricostruire, visualizzare — ma non a vivere. Nemmeno una ripresa televisiva riesce a restituire davvero l’intensità della processione: i silenzi, le mani che si stringono, le lacrime. Sono emozioni incarnate, non replicabili. Un algoritmo può generare forme, non significati.

Come si trasmette oggi il valore del costume alle nuove generazioni? Dove si impara, se non nelle famiglie o nei laboratori sartoriali?

È qui che il sistema istituzionale manca. La scuola dovrebbe insegnare non solo la lingua e la storia della Sardegna, ma anche le sue espressioni materiali: il ballo, l’abito, il canto. Le famiglie fanno quello che possono, ma servirebbe una visione culturale strutturata. Il costume non è un museo ambulante: è ancora oggi una lezione viva di storia, artigianato, estetica popolare. Eppure resta spesso affidato a pochi appassionati. Bisognerebbe valorizzarli, formarli, metterli in relazione con i giovani. Manca una politica della memoria quotidiana.

È possibile secondo lei immaginare una “Sant’Efisio aumentata”? Una tradizione che usi anche la tecnologia, ma senza snaturarsi?

La tradizione non è immobile. Francesco Alziator diceva che ci sono tradizioni “rigide” — ormai cristallizzate, come l’abito che non si usa più quotidianamente — e tradizioni “flessibili”, che si trasformano perché ancora vive. La Sagra di Sant’Efisio è viva. Si evolve. Basti pensare alla recente nomina di un Alter Nos donna, o alla vestizione pubblica del Santo: gesti impensabili fino a pochi anni fa. La tecnologia può inserirsi, se è la comunità a volerlo. Può aiutare a documentare, a coinvolgere, a spiegare. Ma non deve sostituire l’esperienza. L’importante è che ogni cambiamento sia condiviso, mai imposto.

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