
Questo rituale affonda le sue radici in epoche antichissime, risalenti al III millennio a.C. in Mesopotamia, culla della civiltà umana. Qui, ogni anno si celebrava la ierogamia, ovvero il matrimonio sacro tra il sovrano e una sacerdotessa-prostituta che impersonava la dea dell’amore e della fertilità, Inanna (nota in accadico come Ishtar). Il re rappresentava il dio-pastore Dumuzi, suo sposo divino. L’unione sessuale rituale tra questi due personaggi, che si svolgeva nei templi, aveva lo scopo di propiziare la fertilità della terra, l’abbondanza dei raccolti, la prosperità degli animali e la felicità del popolo. Era un momento di comunione tra mondo umano e mondo divino, in cui il sesso diventava strumento sacro e simbolico.
In Mesopotamia, il centro della prostituzione sacra era il tempio di Ishtar, un complesso articolato in cui vivevano e operavano le prostitute del tempio, suddivise in diversi ordini gerarchici. Al vertice stava l’alta sacerdotessa, spesso di origine nobile o reale. Sotto di lei vi erano due categorie principali: le prostitute sacre, che prendevano parte ai rituali religiosi veri e propri, e le prostitute di commercio, che, pur collegate al tempio, operavano per raccogliere denaro e beni. Questo sistema rifletteva una visione del sesso come strumento al servizio della comunità e della divinità, ma anche un’organizzazione strutturata e complessa, con precise funzioni economiche e sociali.
Secondo Erodoto, ogni donna, almeno una volta nella vita, era tenuta a prostituirsi nel tempio di Afrodite, con un forestiero. Doveva farlo fino a quando un uomo non l’avesse scelta e pagata. Erodoto descrive minuziosamente queste pratiche, ma con evidente disprezzo, considerandole immorali. Tuttavia, il suo racconto potrebbe confondere la prostituzione commerciale con quella sacra. Alcune iscrizioni babilonesi, infatti, parlano di donne destinate all’esercito, a supporto dei soldati stranieri, non necessariamente legate a un culto religioso.
Due forme principali di questa pratica erano la ierogamia e la ierodulia: nella prima, la sacerdotessa trasferiva al re il potere fecondante della dea; nella seconda, le schiave del tempio si concedevano ai fedeli come atto devoto. Esisteva anche la prostituzione apotropaica, con cui le giovani ragazze offrivano la propria verginità per allontanare il male e raccogliere la dote.
La prostituzione sacra in Sardegna si intreccia con le influenze culturali e religiose provenienti dal Vicino Oriente e dal bacino del Mediterraneo. Tra queste, la figura della dea Astarte, divinità dell’amore, della fertilità e della guerra, occupa un posto di rilievo nel panorama religioso importato in Sardegna, e con lei anche alcune pratiche cultuali legate alla sessualità, tra cui la prostituzione sacra.
Il culto di Astarte era fortemente radicato nell’impero cartaginese, e la Sardegna non fece eccezione. Le testimonianze archeologiche indicano che in alcuni santuari dedicati a questa dea, soprattutto lungo le rotte commerciali costiere, si svolgessero riti in cui l’unione sessuale era considerata parte integrante dell’esperienza religiosa. Non si trattava di prostituzione nel senso moderno, bensì di un atto rituale che metteva in contatto il fedele con la divinità, attraverso il corpo consacrato di una sacerdotessa o ierodula.
Uno dei siti più significativi è il tempio punico di Astarte situato sul colle di Sant’Elia, a Cagliari. Collocato in posizione dominante sul Golfo degli Angeli, il santuario aveva una funzione non solo religiosa ma anche simbolica e strategica: era visibile dai naviganti e fungeva da segnale di approdo sicuro e di protezione divina.
Nella concezione religiosa del mondo antico, il corpo femminile era uno strumento attraverso cui la potenza divina poteva manifestarsi. Le sacerdotesse di Astarte non erano semplici donne al servizio del tempio, ma incarnazioni temporanee della dea stessa. L’atto sessuale con i fedeli, spesso stranieri di passaggio, come marinai o mercanti, era visto come un’offerta, un sacrificio in grado di favorire la fertilità della terra, la prosperità dei commerci, la salute della comunità. L’eventuale compenso economico, offerto al tempio, aveva anch’esso un valore sacro, un dono alla divinità per riceverne protezione o favori.
Il rito, quindi, andava oltre l’aspetto fisico: era un momento di contatto tra il mondo umano e quello divino, quindi la prostituzione sacra era un atto di mediazione spirituale, regolato da norme all’interno del tempio. In Sardegna e nel mondo mediterraneo, questi riti avevano un carattere pubblico e sacro, con momenti cerimoniali precisi, legati a festività stagionali o eventi particolari, come l’inizio della primavera o la celebrazione di cicli agricoli.
Oltre al santuario di Sant’Elia, si ritrovano altre tracce simboliche del culto di Astarte in Sardegna. Un esempio è rappresentato da un concio in pietra rinvenuto nei pressi di Oristano, raffigurante due colombe stilizzate, animali associati alla dea, indizi dell’esistenza di una religiosità legata alla fertilità e all’amore, in cui le donne avevano un ruolo centrale e sacro.
Il tema della prostituzione sacra in Sardegna si inserisce in un più ampio contesto mediterraneo in cui pratiche simili erano conosciute e diffuse, anche se con forme e significati diversi. A Erice, in Sicilia, il culto di Afrodite Ericina era praticato in un santuario celebre per le sue ierodule, e lo stesso vale per la Magna Grecia, con la colonia di Locri e la venerazione per Afrodite Ctonia. In queste realtà, le pratiche sessuali rituali erano parte integrante della religione come ponte tra il mondo terreno e quello degli dei. Con l’affermarsi del cristianesimo queste pratiche furono represse e condannate, e la sessualità fu separata dal sacro.
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