
Il Tempio di Antas, nel sud-ovest della Sardegna, è una delle testimonianze archeologiche più affascinanti dell’isola. Diversamente da altri edifici di culto sardi, collocati in città come Tharros, Nora o Cagliari, questo santuario fu edificato in un’area interna, lontana da centri urbani, ma strettamente legata a un’economia mineraria di grande importanza. La sua funzione fu dunque religiosa ma anche economica e politica, in quanto legata allo sfruttamento intensivo delle miniere.
Le fonti antiche (Tolomeo) citavano un tempio dedicato al Sardus Pater, divinità venerata in età punica e romana, ma la sua localizzazione restò incerta per secoli. Alcuni studiosi lo collocavano a Capo Pecora, altri a Capo Frasca. L’ipotesi di quest’ultima località ebbe lunga fortuna: già nel Seicento il geografo olandese Filippo Cluverio la propose, e nel secolo successivo fu accolta anche da Giovanni Spano, il fondatore dell’archeologia sarda.
Nell’Ottocento il La Marmora rafforzò tale ipotesi, interpretando erroneamente un’iscrizione stradale come riferimento a un “sacellum”. Solo negli anni Cinquanta Lilliu dimostrò che le strutture di Capo Frasca erano in realtà una villa romana. Nel frattempo, però, nella valle di Antas erano già visibili ruderi monumentali, tanto che nel 1838 La Marmora ne tracciò un disegno e incaricò l’architetto Gaetano Cima di realizzarne un rilievo e una proposta di ricostruzione. Tuttavia, il sito fu a lungo interpretato come il tempio di Metalla, una città romana.
La svolta avvenne negli anni Sessanta, quando una serie di scavi e ritrovamenti epigrafici chiarì definitivamente la questione. Nel 1966 emerse un’iscrizione che nominava esplicitamente il Sardus Pater ad Antas: la prova decisiva che il tempio ricercato per secoli era proprio lì.
Tra il 1967 e il 1968 una missione congiunta dell’Università “La Sapienza” di Roma e della Soprintendenza di Cagliari, guidata da Barreca, avviò una campagna di scavi sistematica. I risultati furono pubblicati nel 1969, diventando la base degli studi successivi.
All’epoca, il sito era in rovina: restavano solo parti del podio e del basamento romano, mentre i blocchi di colonna erano dispersi. Negli anni Settanta fu avviato un intervento di anastilosi, cioè di ricostruzione con i materiali originali, integrati da blocchi nuovi modellati secondo l’antico. La parte anteriore del tempio, con colonne e frontone, venne restituita in una forma suggestiva, pur se non totalmente fedele all’originale.
Sebbene oggi si ammiri soprattutto la fase romana del santuario, la storia religiosa di Antas affonda le radici nell’età nuragica. Nel 1984 lo studioso Ugas scavò un piccolo sepolcreto a breve distanza dal tempio, datato tra il IX e l’VIII a.C. Vi furono trovate tre tombe a pozzetto con individui deposti in posizione seduta o inginocchiata, accompagnati da ornamenti preziosi (oro, ambra baltica, cristallo di rocca, pasta vitrea) e da un bronzetto nuragico raffigurante un guerriero in atto di saluto.
Secondo gli studiosi, questa figura rappresenterebbe la prima divinità venerata nell’area: Babai, una divinità paterna locale che i Cartaginesi identificarono con Sid Addir Bab e i Romani con il Sardus Pater. Si tratta dunque di un culto che, pur trasformandosi e adattandosi, mantenne una lunga continuità, dalle origini nuragiche fino all’età imperiale.
Il primo vero santuario monumentale fu edificato dai Cartaginesi attorno al 500 a.C., quando frequentavano la Sardegna sud-occidentale. Per Cartagine i templi non erano solo luoghi religiosi, ma anche centri di amministrazione economica e politica, cruciali per lo sfruttamento delle risorse minerarie e agricole.
Il tempio punico di Antas, di cui oggi restano pochi lacerti murari, era inizialmente una struttura semplice, con un recinto che circondava una roccia sacra, fulcro del culto. Nel IV-III a.C. subì modifiche: venne aggiunta una facciata monumentale con colonne doriche e motivi architettonici egiziani, segno della mescolanza culturale tipica del mondo punico.
Numerosi ritrovamenti testimoniano l’intensa attività del santuario: iscrizioni votive su pietra e bronzo, spesso dedicate da funzionari pubblici o rappresentanti di istituzioni cartaginesi. Una di esse cita l’AM di Caralis, probabilmente un’assemblea o corporazione ufficiale. Altri testi ricordano offerte al dio Sid Addir Bab, descritto come potente e paterno.
Fra i materiali rinvenuti vi sono anche statue e teste marmoree di tradizione greca (Afrodite, Demetra, Kore), segno di un contatto diretto con il mondo ellenico, nonché migliaia di monete puniche, amuleti egizi e manufatti votivi in bronzo. Colpisce il fatto che molti oggetti furono intenzionalmente frantumati, come per cancellarne il ricordo in età successiva.
Con la conquista romana della Sardegna, nel 238 a.C., il santuario venne progressivamente romanizzato e trasformato in un monumento grandioso. Il tempio fu ricostruito con uno stile classico romano, dotato di un podio, di colonne imponenti e di un pronao monumentale. Fu dedicato ufficialmente al Sardus Pater Babai, divinità interpretata dai Romani come un eroe mitico locale, antenato del popolo sardo.
Il culto, dunque, non fu abolito ma reinterpretato: la divinità nuragica-punica si trasformò in una figura integrata nel pantheon romano, con un ruolo anche identitario. Le iscrizioni latine e i resti architettonici testimoniano questa fase, che durò fino al tardo impero.
Le interpretazioni sono varie. Alcuni studiosi vedono in Sid Addir Bab / Sardus Pater un dio cacciatore, in relazione ai giavellotti votivi rinvenuti nel sito. Altri lo considerano un guaritore, per le dediche a divinità terapeutiche come Shadrafa. Per altri ancora era un fondatore mitico, legato a Melkart-Eracle, o persino una divinità marina. Probabilmente il suo significato mutò nel tempo, adattandosi alle diverse culture che lo accolsero.
Il Tempio di Antas, quindi, non è solo un monumento antico, ma il simbolo della stratificazione culturale della Sardegna: Nuragici, con il culto originario di Babai; Cartaginesi, che ne fecero un centro religioso ed economico di grande rilievo; Romani, che lo monumentalizzarono e ne reinterpretarono il culto in chiave imperiale.
Dopo secoli di oblio, il santuario è riemerso dall’oblio grazie agli scavi e alla ricostruzione del Novecento. Oggi, tra le colline verdi della valle, le colonne del tempio si ergono di nuovo, evocando la memoria di un culto millenario che unì spiritualità, identità e potere.
Non è soltanto un monumento archeologico: è un ponte tra epoche e culture, un testimone silenzioso di come la Sardegna abbia sempre saputo accogliere e trasformare le eredità del Mediterraneo, mantenendo però viva una propria identità profonda, rappresentata dal mito eterno del Sardus Pater.
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