
Ogni anno, milioni di litri di latte ovino vengono trasformati in Sardegna per dar vita a uno dei formaggi italiani più esportati al mondo: il Pecorino Romano DOP. Nonostante il nome richiami la capitale, il 90% della produzione avviene sull’isola. Eppure, paradossalmente, questo prodotto simbolo della tradizione casearia locale è quasi assente dalle tavole dei sardi.
Gran parte del Pecorino Romano prende la via dell’export, con gli Stati Uniti tra i principali acquirenti. Nel frattempo, nei supermercati della Sardegna, abbondano formaggi industriali d’importazione, mentre anche altre eccellenze locali, come il Fiore Sardo e il Casizolu, rimangono prodotti di nicchia.
Ma perché un formaggio così radicato nella storia dell’isola non viene consumato dai suoi abitanti? La risposta sta nel suo sapore: il Pecorino Romano è tradizionalmente molto salato, una caratteristica pensata per garantirne la conservazione e facilitarne il trasporto. Già nell’antichità, questo formaggio era destinato ai lunghi viaggi e all’esportazione piuttosto che al consumo quotidiano.
Oggi il Pecorino Romano viene usato soprattutto come formaggio da grattugia nella cucina internazionale, più che come prodotto da tavola. Il risultato? Si vende benissimo all’estero, ma in patria fatica a trovare spazio sulle tavole dei sardi.
Questa strategia commerciale espone l’intero settore caseario a rischi enormi. Più di un terzo della produzione è destinato agli Stati Uniti, un mercato che più volte ha minacciato di imporre dazi sui prodotti agroalimentari europei. Se l’export dovesse subire un crollo, i produttori sardi si troverebbero in grave difficoltà, con pesanti ripercussioni economiche per l’intera filiera.
A sollevare il tema del consumo interno è il giornalista Antonagelo Liori, che in un recente post sui social ha evidenziato una realtà paradossale: i sardi consumano pochissimo formaggio locale, mentre sugli scaffali abbondano prodotti stranieri. Secondo i dati da lui riportati, ogni sardo consuma in media 14 kg di formaggio all’anno, ma la maggior parte proviene dall’estero. E il Pecorino Romano, pur essendo prodotto quasi interamente in Sardegna, è tra i grandi assenti dalle tavole isolane. Liori propone una soluzione chiara: invertire il rapporto tra consumo locale ed export. Se l’80% del formaggio consumato in Sardegna fosse di produzione locale, si potrebbero assorbire 20 milioni di chili di prodotto, corrispondenti a 130 milioni di litri di latte – il 30% della produzione regionale. Ma il problema non è solo economico: è anche culturale. Liori sottolinea che, mentre in Francia il consumo pro capite di formaggio è il doppio di quello italiano, in Sardegna – terra di pastori e formaggi d’eccellenza – si preferiscono prodotti come Philadelphia o Leerdammer. E provoca: “Come si fa a mangiare solo 14 chili di formaggio l’anno? Io li consumo in meno di un mese, e al 90% sono formaggi sardi!”
Secondo il suo ragionamento, più che temere i dazi di Trump, bisognerebbe partire dal basso e valorizzare il consumo interno. Solo così il settore potrebbe svincolarsi dalla dipendenza dall’export e costruire una base di mercato più solida.
Puntare sul consumo locale potrebbe essere la chiave per dare maggiore stabilità al settore caseario sardo. Se i formaggi prodotti sull’isola fossero più presenti sulle tavole dei sardi, il mercato interno potrebbe assorbire una parte significativa della produzione, riducendo la dipendenza dall’export e rendendo l’intera filiera più resiliente.
Il dibattito sta già prendendo piede sui social, dove cresce la consapevolezza di questa contraddizione: un’isola famosa per i suoi formaggi che consuma in gran parte prodotti stranieri. L’hashtag #MangiaSardo sta guadagnando popolarità, con chef e ristoratori che sperimentano nuovi modi per integrare il Pecorino Romano nella cucina di tutti i giorni.
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