
Le parole dello scrittore Roberto Saviano sull’assalto al portavalori avvenuto nei giorni scorsi in Toscana hanno riacceso un vecchio interrogativo: perché in Sardegna non esiste una mafia vera e propria?
Secondo l’autore di Gomorra, che nel suo video ha ricostruito l’azione criminale ipotizzando il coinvolgimento di una banda sarda, “la Sardegna produce criminali, ma non mafia”. Una frase che ha suscitato un’ondata di reazioni, tra cui l’intervento del semiologo Franciscu Sedda, consulente della presidente Alessandra Todde, che ha deciso di affrontare la questione sui social.
Saviano sottolinea un aspetto organizzativo: le bande criminali sarde – pur capaci di pianificare azioni complesse – non tollerano strutture gerarchiche fisse. “Possono accettare una gerarchia operativa per quanto riguarda un assalto, ma non l’egemonia di un boss”, dice lo scrittore, che individua in questo rifiuto della leadership una delle ragioni per cui in Sardegna non si è sviluppata una mafia sul modello di quelle siciliana, calabrese o campana.
Il semiologo Sedda rilancia partendo proprio da questo punto. La Sardegna, scrive, è da sempre caratterizzata da un forte individualismo identitario, espresso nel detto popolare “centu concas, centu berrittas” – cento teste, cento berretti. Una società frammentata, dove è difficile costruire reti criminali stabili e strutturate. Secondo Sedda, ciò ha portato a una forma di “anarchia ordinata”: gruppi che si organizzano in modo temporaneo per un’azione, poi si sciolgono.
Tuttavia, aggiunge Sedda, questo non significa che l’isola sia priva di attività criminali o che sia immune da dinamiche mafiose. Piuttosto, la Sardegna sarebbe terreno d’azione per gruppi esterni, in particolare per la camorra e la ’ndrangheta, che utilizzano il territorio come base logistica per traffici di droga e riciclaggio.
“Anche sul terreno criminale, per quanto i sardi non si intruppino nelle organizzazioni straniere, però nemmeno comandano in casa propria”, scrive Sedda.
Una posizione che si allinea con quella di Saviano, secondo cui i criminali sardi operano spesso come subordinati nei traffici controllati da organizzazioni continentali, mantenendo una certa autonomia solo nelle azioni isolate come le rapine ai portavalori.
Il commento di Sedda tocca anche un aspetto storico-culturale: il mito del banditismo sardo, spesso romanticizzato come forma di ribellione o resistenza sociale. In realtà, osserva il semiologo, i banditi sardi del Novecento raramente avevano motivazioni politiche o ideologiche. Un esempio emblematico è quello di Graziano Mesina, il cui legale negli anni Settanta era un esponente del Movimento Sociale Italiano.
“Questo dovrebbe farci riflettere – scrive Sedda – sulle cantonate prese da certi ambienti progressisti e indipendentisti, che hanno tentato di nobilitare il banditismo come se fosse una forma di lotta anti-Stato.”
Infine, Sedda allarga il discorso. Al di là del crimine organizzato, c’è un tessuto sociale segnato da clientelismo, familismo e raccomandazioni, una rete di favori e complicità che, pur non configurandosi sempre come reato, contribuisce a mantenere lo status quo e ostacola sviluppo e meritocrazia.
“È malcostume o è fenomeno criminogeno? La persona comune, il sociologo e la magistratura darebbero risposte differenti”, osserva Sedda.
Sedda chiude la sua riflessione con un invito alla lucidità: evitare sia il vittimismo identitario che l’autodenigrazione culturale. La questione, suggerisce, non è stabilire se “siamo migliori o peggiori” degli altri, ma piuttosto capire come cambiare lo stato di cose, affrontando i problemi culturali e strutturali che, pur senza produrre mafia in senso stretto, possono favorire l’illegalità diffusa.



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