LA STORIA. Da Cagliari alla Palestina, Cile e Mosca: Noemi, la volontaria con la valigia pronta

Noemi Arcibeni durante la missione in Cisgiordania

Noemi Arcibeni, 29 anni, è nata e cresciuta a Cagliari, ma il suo sguardo è sempre stato rivolto oltre i confini dell’Isola. Dopo un primo approccio al volontariato con le suore di Madre Teresa nel quartiere di Sant’Elia, ha deciso di trasformare quell’esperienza in un impegno costante. Ha studiato Scienze Politiche internazionali tra Cagliari e Mosca, ma la guerra in Ucraina ha bruscamente interrotto il suo percorso esperienziale, mentre quello accademico si è concluso con la laurea ottenuta con il massimo dei voti. Da quel momento, ha dedicato la sua vita al volontariato e alla tutela dei diritti umani, operando in contesti difficili con l’Associazione Papa Giovanni XXIII e portando la sua voce fino al Consiglio delle Nazioni Unite sui Diritti Umani a Ginevra.

La sua esperienza più intensa è stata in Palestina, dove, con Operazione Colomba, ha vissuto per un mese e mezzo documentando violazioni dei diritti umani e fungendo da scudo umano tra coloni e palestinesi. Ora si prepara per una nuova sfida: lavorare in Cile con le comunità indigene Mapuche. In questa intervista racconta il suo percorso, tra difficoltà, paure e motivazioni che la spingono a continuare.

Come è iniziato il tuo impegno nel volontariato?

Ho iniziato a 17 anni con le suore di Madre Teresa a Sant’Elia, a Cagliari. Mi sono trovata subito in una realtà complessa, a stretto contatto con persone in difficoltà. Quell’esperienza mi ha fatto capire che volevo dedicarmi all’aiuto degli altri, ma anche che per farlo in modo efficace servono strumenti adeguati.

Cosa ti ha spinto a lasciare la Sardegna per esperienze internazionali?

Ho sempre sentito il bisogno di capire il mondo da vicino. Il volontariato in contesti locali mi ha dato tanto, ma sapevo che c’era una realtà più ampia da esplorare. Ho deciso di studiare relazioni internazionali per dotarmi di strumenti concreti, ma poi ho capito che la teoria non bastava: volevo essere presente, vedere con i miei occhi quello di cui si parlava nei libri.

Hai vissuto diverse esperienze internazionali. Qual è stata la più intensa?

Senza dubbio la missione in Palestina con Operazione Colomba. Ho vissuto un mese e mezzo in Cisgiordania, documentando violenze, abusi e violazioni dei diritti umani. Il nostro compito era anche quello di fare da scudo umano tra coloni e palestinesi, cercando di proteggere i più deboli. Il livello di tensione era altissimo e la nostra presenza non era sempre ben accetta.

Hai mai avuto paura?

Sì, sarebbe assurdo dire il contrario. Ci sono momenti in cui il rischio è reale, in cui senti che la tua presenza potrebbe essere fraintesa o che potresti trovarti in una situazione pericolosa. Ma impari a gestirla. La paura non può essere un limite, deve essere solo un segnale che ti fa rimanere lucido.

Qual è stato il momento più difficile?

Le notti in Cisgiordania. Spesso dovevamo rimanere svegli per monitorare la situazione nei villaggi palestinesi, in attesa di eventuali incursioni o violenze. È un’esperienza che ti segna, perché capisci che per molte persone quella precarietà è la normalità.

Come si concilia il volontariato con la diplomazia internazionale?

Non è facile. I diritti umani sono spesso politicizzati, e la diplomazia ha i suoi tempi e le sue regole. Bisogna trovare un equilibrio tra l’azione sul campo e la necessità di trattare con istituzioni e governi. È un processo lento, ma necessario per ottenere cambiamenti strutturali.

Ora stai per partire per il Cile. Di cosa ti occuperai?

Lavorerò con le comunità indigene Mapuche nel sud del Paese. È una popolazione che da anni lotta per il riconoscimento dei propri diritti. Il mio obiettivo sarà quello di documentare le loro condizioni e aiutarli a far sentire la loro voce a livello internazionale.

Cosa ti spinge a continuare nonostante le difficoltà?

La convinzione che anche le piccole azioni abbiano un valore. So che non posso cambiare il mondo da sola, ma so anche che il mio lavoro può aiutare a far emergere storie che altrimenti resterebbero invisibili. Questo per me è già un motivo sufficiente per andare avanti.

Che consiglio daresti a chi vuole intraprendere un percorso simile al tuo?

Di essere consapevoli che il volontariato internazionale non è una scelta semplice, ma è anche un’esperienza straordinaria. Bisogna partire con una grande capacità di adattamento, essere pronti a mettersi in discussione e soprattutto ascoltare. Non si tratta di “aiutare”, ma di condividere percorsi con le persone che si incontrano lungo la strada.

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