
A Cagliari ci sono stati luoghi che non si limitavano a esistere, ma dettavano le coordinate di un’intera geografia emotiva. Pizza 74 era uno di questi. Non un locale, non una semplice pizzeria, ma un crocevia di anime in transito, il punto in cui la notte si riconfigurava prima di disperdersi nel silenzio.
Negli anni tra la fine dei Novanta e i primi Duemila, la serata poteva cominciare in mille modi diversi. Bastava voltare l’angolo giusto per cambiare completamente scenario: un sottoscala impregnato di post-punk e nebbia di Marlboro rosse, un bar con i tavolini pieni di gin tonic, una casa dove qualcuno stava ancora cercando di convincere tutti a vedere Paura e Delirio a Las Vegas per la quarta volta.
La città era un mosaico di storie parallele, ma la traiettoria finale finiva quasi sempre lì.
Pizza 74 funzionava come una forza gravitazionale, una calamita in grado di attirare a sé ogni tipo umano: i punkettoni storici con le loro birre calde e gli anfibi distrutti, i grunge in bilico tra apatia e romanticismo autodistruttivo, i darkettoni con il nero colato sotto gli occhi, gli sbarbi alle prime armi con l’alcol, ancora incerti se fosse più cool ordinare un cioppino di Ichnusa o una (borghese) Corona.
Poi c’erano loro, i fighetti – e li riconoscevi subito –, i figli della borghesia cagliaritana, abituati ad altri ambienti ma pienamente consapevoli che, prima di rientrare nei quartieri alti, una pizzetta era necessaria per riequilibrare i fluidi corporei.
E in tutto questo, nessuno stonava. Nessuno si chiedeva cosa ci facesse lì chiunque altro. C’era un tacito accordo collettivo: non esistevano differenze, almeno non davanti a quel bancone illuminato al neon, dove il rito si compiva con una naturalezza matematica.
Si ordinava, si aspettava, si mangiava in piedi o appoggiati a un motorino, si beveva una Ichnusa stappata con l’accendino, si ascoltavano le conversazioni altrui senza la minima intenzione di intervenire.
Dove altro poteva finire la serata? Era l’ultima stazione della notte, il posto dove l’alcol trovava il suo equilibrio e il THC smetteva di premere sulle tempie per sciogliersi in una fame insaziabile.
Il corpo chiedeva impasti soffici e pomodoro salato. E la mente, da qualche parte, registrava tutto: i morsi troppo caldi, le dita sporche d’olio, le risate senza motivo, le discussioni assurde sulla differenza tra indie e alternative, le amicizie nate dal nulla e mai più replicate.
Poi arrivava il momento di andare. Qualcuno a piedi, qualcuno in autobus, qualcuno in auto con il finestrino abbassato per far entrare l’aria fredda e riportare la testa sulla terra.
Ma mentre ci si allontanava, era chiaro a tutti che quel posto non era solo un punto di ristoro: era una sintesi della città, un’architettura invisibile costruita sui resti delle serate e sulla certezza che, qualunque cosa fosse successa prima, quella pizzetta ne sarebbe stata il sigillo definitivo.
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