
Il 15 giugno 1997 circa 20 mila tifosi cagliaritani arrivano a Napoli per assistere allo spareggio salvezza Cagliari – Piacenza. E’ un evento storico, uno di quei giorni che tutti ancora ricordano e che vengono tramandati di generazione in generazione. Il Cagliari perde, perde male. 3 a 1 e addio serie A, con Carletto Mazzone che nelle interviste postpartita fatica a non piangere davanti alle telecamere.
Ma il motivo dell’epicità dell’evento non ha molto a che fare con lo sport, con la retrocessione, con la sconfitta. Le ragioni vengono spiegati molto bene nel docufilm “Deu ci seu” scritto da Michele De Murtas, Michele Badas e Nicolò Falchi, prodotto da “Il circolo della confusione” di Carlo Marceddu e dall’Isre. È stato realizzato grazie al contributo della Regione e al supporto di Filmcommission. “Due ci seu” è stato proiettato per la prima volta un anno e mezzo fa e sarà riproposto domenica 22 dicembre al cinema Greenwich, in via Sassari 67, a partire dalle 19.
Nel docufilm tutto viene spiegato in ordine cronologico: i problemi organizzativi e logistici, le schermaglie politiche, il viaggio assurdo nelle navi, le botte tra tifosi cagliaritani e napoletani. Alla fine, il dramma collettivo unisce un popolo, come tante volte è accaduto in passato.
Michele De Murtas, perché avete scelto di raccontare questa vicenda?
Si tratta di un fatto storico che è entrato nella coscienza dei sardi. Ancora tutti ricordano, ancora diciamo “io c’ero” e raccontiamo quello che è accaduto ai ragazzi più giovani. Per non dimenticare. È uno di quegli eventi che ha anche contribuito a dare compattezza identitaria a decine di migliaia di ragazzi provenienti da tutta l’isola. Ciascuno con le loro storie, modi di vivere, di parlare, di socializzare. Tutti uniti nel tifo e nel disagio e nella difficoltà di essere sardi.
Qual è stato il problema principale per i tifosi?
La traversata. Si scelse Napoli perché aveva un collegamento navale diretto. Ai tempi, prendere un aereo era un lusso assoluto. Quindi, tutti in nave. Proprio in quei mesi il popolo albanese stava emigrando in massa verso l’Italia e c’era un film di Gianni Amelio, intitolato Lamerica, che raccontava di quell’esodo. Si mostravano queste barche strapiene di gente. Di disperati. Lo stesso accadde in quel giugno ’97 ai 20 mila sardi e loro ne erano ben consapevoli: nei filmati dell’epoca lo dicono più volte: “Sembriamo albanesi, come in quel film”.
Giunti a terra, ci furono gli scontri attorno allo stadio San Paolo.
Sì, prima di quella partita c’era già un rapporto difficile tra le tifoserie del Cagliari e quella del Napoli ma erano problemi confinati ai gruppi ultrà. La rivalità acerrima e indistinta è nata in quel giorno del ’97.
Nel vostro documentario quindi si racconta la gioventù degli anni Novanta?
Certo. Il modo di vivere, di viaggiare, di tifare. Di comunicare prima di Internet. Ai tempi non c’erano i social, i fatti avvenivano senza che qualcuno li registrasse continuamente. E poi ovviamente il calcio era diverso.
Qual era il vostro obiettivo quando avete deciso di scrivere il film?
Quella partita mise in moto tanti meccanismi, sociali, culturali e anche politici. Abbiamo pensato che sarebbe stato interessante raccontarli tutti. L’evento sportivo è stato un pretesto per descrivere la società di allora. Inoltre abbiamo messo bene in evidenza cosa voglia dire essere abitanti di un’isola. Questo mare da attraversare, questa difficoltà fisica e mentale del viaggio.
Che accoglienza ha avuto “Deu ci seu”?
Oltre ogni aspettativa. È uscito un anno e mezzo fa ed è stato proiettato in tutti i maggiori cinema dell’isola. Anche per un mese di fila, in alcuni posti. Non ha mai smesso di fermarsi e ora, dopo tutto questo tempo, torna a Cagliari per la proiezione di domenica.
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