IL COMMENTO. Rissa alle Vele di Cagliari: tutto sotto controllo, più o meno

Centro Commerciale Le vele

Domenica 30 marzo, ore 18:30 circa. Centro commerciale Le Vele & Millennium, Quartucciu. C’è il sole, i parcheggi sono pieni, al McDonald’s la fila si muove lenta come ogni weekend. Poi, come ormai succede spesso, l’aria cambia. Due gruppi di ragazzini – circa ottanta in tutto, tutti minorenni – si fronteggiano davanti all’ingresso principale. La scintilla, dicono, è un apprezzamento rivolto a una ragazza. Una battuta, uno sguardo, un vocale di troppo. Ma non è davvero questo il punto. Non lo è mai. Il punto è che anche stavolta c’è il pubblico. Gli amici, i curiosi, e soprattutto i telefoni. Perché tutto viene ripreso, montato, postato. La rissa non è un’esplosione, è una messa in scena. Un’esibizione di presenza. Un modo per dire: ci siamo anche noi. Il copione è noto. Il ritmo è familiare. Si alza la voce, si stringe il cerchio, partono gli insulti, le spintone, il primo tentativo di colpire. Intorno, ragazzi che filmano. Nessuno davvero interviene. Si aspetta. Il momento buono, l’inquadratura giusta, il gesto che farà girare il video. La rissa non è una notizia. È contenuto.

La replica infinita: dalla Marina al Litorale

Scene così si ripetono ovunque: alle Vele, al Porto, alla Marina, nei parcheggi delle discoteche del litorale quartese dove i ragazzini arrivano con i tirapugni in tasca. Non sempre per usarli. Spesso solo per farli vedere. Per creare tensione. Per costruire narrazione. Per assomigliare a quello che sentono nelle cuffiette: trap, drill, remix auto-tune di vite iperrealistiche in cui il rispetto si conquista a botte e si perde a sguardi. Il codice è questo. Un’estetica precisa. Felpe bianche, tute lucide, cappuccio tirato su anche col sole, Air Max ai piedi, sfumatura geometrica, baffetto scolpito, sguardo duro. E la voce sempre bassa. Intercalari recitati come mantra. Linguaggi tagliati, secchi. Come i video. Quindici secondi. Una rissa. Una frase. Un’espressione che diventa meme. Il tutto condensato nel tempo di un reel.

Ingresso vietato ai ragazzi

Arrivano i carabinieri. I gruppi si aprono. Nessuno corre. Qualcuno si allontana. Uno sistema il marsupio. Uno raccoglie un berretto. Uno prova a rientrare dal lato Intimissimi, occhi fissi sul telefono. Un altro si siede da McDonald’s, apre il ketchup, mangia in silenzio. L’ordine torna in pochi minuti. Poi filtrano gli ingressi. Dentro solo adulti e famiglie. Fuori i ragazzi. Nessuno dice niente. Si sparpagliano. Qualcuno si siede. Qualcuno resta in piedi. Si scrolla. Si ascolta musica. Volume alto. Nessuno parla. Nessuno se ne va. Solo attesa.

Non è la rissa. È il silenzio attorno

La scena si ripete. Non uguale, ma abbastanza simile da essere riconoscibile. Cambiano i nomi, gli abiti, le voci, ma la dinamica è ormai codificata: uno scontro tra ragazzi, un innesco minimo, una presenza numerosa, e tutto che si consuma nel tempo di qualche video. Episodi come questo non sorprendono più. Rientrano in una routine fatta di piccoli allarmi e risposte temporanee. Le istituzioni osservano, intervengono quando serve, archiviano. La scuola prova a parlare di regole e crescita. Le famiglie, dove ci sono, tengono insieme come possono.

Intorno, la città adulta continua la sua giornata. Registra il rumore, ma raramente lo ascolta. Intanto, nei luoghi dove i ragazzi si ritrovano – un centro commerciale, una piazza, il bordo di una discoteca – le stesse dinamiche tornano a galla. Sempre uguali, mai davvero risolte. Non è la rissa il centro. È quello che le gira attorno. E che, puntualmente, resta fuori inquadratura.

prova
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