John Wayne Gacy: il Killer Clown

John Wayne Gacy Clown

Sembra uno di quei quartieri americani dove la vita scorre lenta, tra barbecue e bandiere a stelle e strisce. E in effetti, nel quartiere di Noorwood Park Township, alla periferia di Chicago, è davvero cosi. Case in fila, prati rasati, luci accese al tramonto. I vialetti ordinati, l’erba tagliata a regola d’arte e il profumo di torta di mele che arriva dai vicini. Qui tutti si salutano per nome, si conoscono da sempre e si fidano. E’ proprio lì che vive lui. E’ l’uomo delle feste, quello che cucina per tutti gli hot-dog il 4 luglio. Gestisce un’ impresa edile ma fa il volontario in chiesa, impegnato con i ragazzi, amico della polizia, paladino della comunità. Lo chiamano Pogo, Pogo il Clown, anima feste per bambini e ragazzi, i genitori lo adorano. Trucco bianco, parrucca colorata e risate sguaiate. Sorridere è un dovere dice, e la gente gli crede tanto da eleggerlo nei comitati di quartiere, perché lui fa bene alla comunità. Nessuno sa che dietro quel costume colorato si nasconde un segreto inconfessabile.
Ma qualcosa comincia a stonare. Una puzza, un odore acre che non assomiglia a niente di animale. Quel tanfo ha radici profonde, sotto il cemento. E un giorno un ragazzo scompare, ma quella casa da fuori continua a sorridere.

Un minuto soltanto

È l’11 dicembre 1978. L’aria è gelida, la neve copre Des Plaines. Elizabeth parcheggia di fronte alla farmacia. Suo figlio Robert Jerome Piest, ha compiuto 15 anni da poco, entra un attimo, è il compleanno della sorella e stanno per tornare a casa. Ma dentro la farmacia, Robert sente parlare di un uomo. Dice di cercare ragazzi per lavori edili, paga bene, cinque dollari l’ora. “Solo un colloquio, torno tra un minuto,” dice, Ma Robert sparisce per sempre. Elisabeth denuncia subito la scomparsa. Il titolare della farmacia fa un nome: John Wayne Gacy, l’uomo che sta ristrutturando i locali. La polizia lo contatta, ma nega tutto: “Quel ragazzo, io non l’ho mai visto.”
Ma Gacy, non è un cittadino qualsiasi, ha un precedente per sodomia su un minore, una condanna del 1968. Questo basta per far scattare la prima perquisizione. La casa appare in ordine ma comunque qualcosa non quadra. Gli agenti non si fidano, restano a distanza e sorvegliano. Quella villetta con le luci di Natale ha qualcosa di inquieto, e il sipario lentamente comincia ad alzarsi. E quell’uomo che i bambini chiamano Pogo il Clown ha un nome e una storia che non avrebbe mai dovuto diventare realtà.

Gacy, il clown

John Wayne Gacy, è proprio lui quell’uomo dal trucco sgargiante, quel giullare che intrattiene i bambini nelle feste di beneficenza, Pogo il clown.
Nato il 17 marzo 1942 a Chicago, figlio di un alcolizzato violento e di una madre sottomessa, cresce con il cuore già pieno di cicatrici. Da bambino è spesso malato, emarginato. Il padre lo insulta, lo picchia, lo chiama “checca” e lo accusa di essere un fallito. Gacy cerca di compiacerlo, ma non ci riesce mai. A diciott’anni fugge, si sposa con Marilyn Myers con cui ha due figli, tenta una vita normale. Ma sotto quella camicia stirata e quei modi da bravo ragazzo, si agita un abisso.
Nel 1968 viene arrestato per sodomia: ha abusato di un adolescente. Finisce in prigione, ma ne esce per buona condotta dopo soli diciotto mesi. La moglie lo lascia e ottiene l’affidamento esclusivo dei due figli. Si trasferisce a Des Plaines, apre un’impresa edile, la PDM Contractors , e si reinventa: attivo in politica, travestito da clown nei weekend per rallegrare i piccoli ricoverati negli ospedali. Ma quel trucco colorato nasconde crepe sempre più profonde.
Il pagliaccio che fa ridere i ragazzi è lo stesso che, di notte, li inghiotte nel buio della sua casa. E ora, la polizia lo ha appena interrogato per la scomparsa di un quindicenne, ma è solo l’inizio. La prima perquisizione non porta a nulla, la casa appare in ordine e pulita. La polizia, tornerà in quella casa, e basterà tirare lo sciacquone e esploderà l’odore nauseabondo della verità.

Quello che il cemento non ha sepolto

Lo sciacquone tira giù il silenzio. Un agente entra nel bagno della villetta e tira la catena, un secondo dopo un gorgoglio sordo, profondo.
Poi, come una coltellata al naso, la stanza si riempie di qualcosa che non ha più niente di umano. È odore di carne marcia, di decomposizione, una morsa invisibile stritola le narici. Uno dei poliziotti fa un passo indietro, si copre la bocca e chiama gli altri. Quel tanfo non mente. Solo dopo quell’episodio, il giudice firma il secondo mandato di perquisizione, non ci sono più dubbi, si torna a scavare. Il pavimento in cemento viene rotto, il garage aperto. Nel crawl space, lo spazio angusto sotto la casa, le torce illuminano il buio. Un piede, poi un braccio, sacchi resti, corpi piegati e sovrapposti avvolti nel nylon. Tutti giovani, tutti maschi. E Gacy? In commissariato accavalla le gambe, sorride e comincia a parlare: “Non so quanti, sono tanti, alcuni sono nel fiume, gli altri sono a casa.”Dice di non ricordare i nomi. Ne hanno contati 29 nella casa e almeno 4 nel fiume Des Plaines. Ma l’elenco non è mai terminato davvero. Ora quella villetta non è più una casa ma un cimitero. Ogni osso ritrovato sotto quella casa racconta un dolore che non ha avuto il tempo di urlare.

La casa degli orrori

Quando il nome di John Wayne Gacy esce dalla bocca dei poliziotti, la città è incredula. Ma è proprio così, è lui. È sempre stato lui.
Gacy attira i ragazzi con la promessa di un lavoro ben pagato nella sua impresa edile, altri li cerca in strada, tra i giovani prostituti dei quartieri. A volte gli mostra una finta placca da sceriffo. Li convince a provare le manette: “Ti insegno un trucco da prestigiatore,” dice. Una volta bloccati, è fatta. Li costringe a inginocchiarsi, li violenta, li picchia, li deride. Non urlano, non possono. Alcuni hanno la bocca imbavagliata, altri sono talmente storditi dal cloroformio che non distinguono più l’alto dal basso. Si ritrovano nudi, nel buio, con mani e piedi legati. Lui li osserva con calma. John Wayne Gacy non improvvisa, gioca. E per giocare si mette il costume, non quello da clown, ma quello del carnefice.

Rope Trick

Il rituale più perverso lo chiama il “rope trick”, una corda attorno al collo, un nodo che stringe a ogni torsione. Dice che è una magia: “Guarda cosa succede quando giro il bastone”. E mentre la vita si spegne negli occhi della vittima, lui sorride. A volte li soffoca con un cuscino, mentre urla loro contro che sono spazzatura. Alcuni li tiene prigionieri per ore, persino giorni. Alcuni li lega a un cavalletto, altri li immerge nella vasca da bagno per provocare asfissia controllata. A volte versa cera bollente sulla pelle. Altre ancora li picchia con un bastone, li sodomizza con oggetti, o li costringe a ingoiare i suoi escrementi. Ci sono bruciature da sigaretta, graffi, tagli. Persino un pugnale con la punta smussata che serve solo a ferire. E quando ha finito, quando il corpo non è più utile, lo chiude in un sacco nero e lo infila nel vano sotto il pavimento. E mentre la città dorme, i ragazzi continuano a scomparire. A tutti, riserva la stessa fine: una morte lenta, umiliante, senza pietà. Eppure, tra tutte quelle voci soffocate, ce n’è una che ha avuto la forza di gridare.

L’uomo che tornò dall’inferno

Non ricorda il volto, solo l’odore di cloroformio.
Jeffrey Rignall sta camminando per le strade di Chicago, è il 22 marzo 1978. Un’auto si accosta, il conducente sorride, offre uno spinello. È gentile, sembra amichevole, ma in un attimo, il mondo si fa nero. Si risveglia più volte, ma ogni volta è peggio. È legato, braccia e gambe, ha un asse di legno sotto la schiena. Il dolore è sordo, continuo. Lo stanno stuprando, lo stanno torturando. Ha qualcosa infilato nella bocca, non può urlare. “Mi ha sodomizzato con oggetti. Mi ha bruciato con la cera. Mi ha colpito ovunque. E mi ha detto che se l’avessi detto a qualcuno, mi avrebbe ucciso.” La voce di Jeffrey trema anche in aula, mesi dopo.
“Continuava a darmi cloroformio. Lo sentivo avvicinarsi, quando mi risvegliavo, era ancora lì, continuava, non finiva mai.” Lo tiene prigioniero per ore.
Poi, improvvisamente, lo carica di nuovo in macchina. Gli scaraventa il corpo martoriato in un parco, Lincoln Park, sanguinante e confuso, ma vivo.
E da vivo, Jeffrey racconta. Va dalla polizia, denuncia, ma nessuno lo ascolta. È un tossico, dicono, un omosessuale, aggiungono. Allora fa da solo, compra un binocolo, pedina l’auto, annota la targa. John Wayne Gacy, lo ha trovato. Solo dopo la scomparsa di Robert Piest la polizia inizierà a credergli.
In aula, Jeffrey lo guarda, e dice: “Quando mi ha lasciato andare, ero già morto.” Grazie a lui la maschera del clown è caduta. . Ma quella maschera, ancora, sorride nel buio, e non è finita.

Un sorriso e una cravatta

“Non sono mai stato io. Sono stato qualcun altro.”
Febbraio 1980. L’aula è gremita. Fuori, orde di giornalisti. Dentro, un uomo in giacca e cravatta, pettinato, che si siede composto. È John Wayne Gacy, il sorriso sempre stampato in faccia. La stampa lo chiama “il clown assassino”, ma lui non si scompone. L’accusa mostra le foto, i corpi, i sacchi.
I giurati guardano in silenzio, qualcuno trattiene i conati, altri le lacrime.
Il procuratore lo incalza: “Lei ha ucciso trentatré ragazzi, uno per uno.”
Lui risponde, secco: “Ho fatto tante cose sbagliate, ma non ho mai ucciso nessuno.” Poi si vanta del numero: “Se veramente li ho uccisi io, allora ho battuto tutti. Nessuno li ha superati.” La difesa tenta l’infermità mentale, ma Gacy è lucido, imperturbabile. Parla della sua infanzia, dei problemi con il padre. Ma non mostra mai rimorso. Il verdetto arriva dopo due ore, colpevole di 33 omicidi. Pena di morte.
Gacy ascolta impassibile e prima di lasciare l’aula, guarda il giudice e sussurra:
“Il clown è morto, adesso resta solo l’uomo.”
E mentre la condanna si inchioda come una lama sul legno, qualcosa, in quel silenzio finale, continua a ridere.

Avevano un nome. Erano ragazzi, adolescenti, studenti, operai, qualcuno con la vita appena cominciata, qualcun altro già stanco del mondo. Alcuni vivevano per strada, altri lavoravano per aiutare i genitori. Nessuno sapeva che sarebbe stata l’ultima volta. Alcuni tra i nomi certi, identificati attraverso il DNA, le impronte, le testimonianze, o i ritrovamenti diretti. Tutti giovani. Tutti strappati al mondo da una risata sbagliata. Timothy Jack McCoy , 16 anni, ucciso nel 1972, il primo.
Robert Piest , 15 anni, l’ultimo, quello che ha fatto crollare il sipario.
Altri corpi non hanno mai avuto un volto. Sette di loro, ancora oggi, sono registrati come “Unidentified Male”. Uccisi, sepolti, dimenticati, ma non da tutti.
Nessuno di loro rideva, nessuno di loro giocava. Nessuno di loro ha scelto di entrare nella Casa degli Orrori.

Chi ride adesso?

10 maggio 1994. Ore 00:58.
Prigione di Stateville, Illinois.
John Wayne Gacy attraversa il corridoio della morte con passo lento, quasi teatrale. Indossa la solita tuta arancione. Le mani non gli tremano, gli occhi sono asciutti.
Davanti a lui, la porta della camera per l’iniezione letale è aperta. Lo aspettano in silenzio. Qualcuno non riesce a guardare, lui si, guarda e sorride.
Viene adagiato sul lettino d’acciaio. I cinturini si chiudono sui polsi, sulle caviglie, sul petto. Nel braccio, l’ago. Il veleno è già pronto, cloruro di potassio, pentobarbital, paralizzanti Ma prima, la domanda di rito:
«Vuole dire le sue ultime parole?» «Kiss my ass.» Baciatemi il culo.
Alle 00:58, viene dichiarato morto. Nei giorni precedenti aveva detto:
«Non odio nessuno. Non porto rancore. E comunque anche lo Stato mi sta per uccidere. Non è forse peggio di me?»
Un’altra volta aveva detto: «Un clown può farla franca anche con un omicidio.»
E lui, per anni, c’era riuscito davvero. Aveva ucciso con la parrucca in testa e il naso rosso sul volto. Aveva sepolto i corpi sotto la sua casa, mentre serviva hot-dog ai vicini e si faceva fotografare con la polizia. Aveva trentatré vittime, ma non ha mai chiesto scusa. Mai un cedimento, mai un sussurro di rimorso. E alla fine, quando il sipario si chiude davvero, dietro quel volto dipinto resta solo una fossa comune e l’eco di una risata che puzza di morte. Perché i mostri, quelli veri, non hanno denti affilati, hanno un sorriso e ti stringono la mano

prova
cropped-favicon-sn24.png
Condividi

Articoli correlati