
Un tempo arava la fascia, ora i campi coltivati del sud della Sardegna. Dopo una carriera da calciatore in Serie A, Paolo Faragò ha scelto di mettere radici in Sardegna con la sua famiglia e dedicarsi al vino. Con le Tenute Faragò porta avanti “un progetto che unisce autenticità, territorio e passione”.
Paolo Faragò, perché hai scelto di rimanere in Sardegna dopo il calcio?
Con mia moglie ci siamo trovati bene fin da subito. Lei lavora come medico al Santissima Trinità, e quando sono andato via dal Cagliari, è rimasta qui. Ci sentiamo a casa, ci siamo creati una nuova famiglia di amici: era naturale restare.
Cosa ti ha spinto a fondare Tenute Faragò e puntare sui vitigni sardi?
In un mondo del vino inflazionato, il valore è l’autenticità. La Sardegna ha vitigni unici e vinificarli in purezza è l’unico modo per raccontarli. Anche se talvolta vanno contro le aspettative, esprimono davvero il territorio.
Quali valori del calcio ti porti dietro nella nuova vita?
Il calcio mi ha insegnato lavoro, sacrificio, costanza e il senso di squadra. Oggi, anche in vigna, ho bisogno di una squadra affiatata nei momenti cruciali. È la stessa mentalità che mi guida nella nuova sfida del vino.
Perché non hai scelto di restare nel calcio come allenatore o dirigente?
Non ho continuato nel calcio perché non ho mai sentito una vera vocazione fuori dal campo: non mi vedevo né come dirigente, né in veste dii allenatore. Ho sempre immaginato la mia vita scandita dal momento dell’addio al calcio, per poter stare vicino alla mia famiglia. Questo sport ti rende nomade, e senza la giusta fame non ha senso andare avanti. Il calcio mi ha regalato momenti belli a livello professionale, ma anche tante delusioni dal punto di vista umano: ti esalti quando giochi, ma poi ti ritrovi spesso dentro dinamiche dure da gestire.
Che legame hai oggi con il Cagliari e i suoi tifosi?
Sono un tifoso anche io. I miei trascorsi mi hanno legato alla maglia e mi hanno fatto capire quanto il Cagliari significhi per i sardi. Fa parte del pacchetto: non puoi vivere qui senza affezionartici
(Articolo di Alessio Ghiani)
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