
Mariano Chelo, pittore sardo di fama internazionale, racconta il mondo attraverso l’astrattismo, cercando di catturare l’essenza delle cose nel loro comportamento più che nella loro forma. Nato a Bosa nel 1958 e residente a Cagliari da quasi vent’anni, ha costruito una carriera ricca di mostre in Italia e all’estero, con opere che esplorano temi universali e profondi. La sua passione per l’arte è nata fin da bambino, e da allora non l’ha mai abbandonata.
Ha iniziato a dipingere che era molto giovane, com’è nata questa sua passione?
Mi sono chiesto, quando ero già grande, “Ma com’è che uno scopre di avere una passione?”. Ci sarà qualcosa, una sorta di imprinting per cui da piccolo già questa persona sapeva cosa le sarebbe piaciuto. Io mi sono dato una risposta frugando nei miei ricordi, ho proprio pensato, andando a ritroso, dove potesse essere questo “big bang” che mi ha scatenato la passione per il disegno e per la pittura. L’ho trovato, con mia grande soddisfazione, perché mi sono ricordato che, quando ero molto piccolo, una delle commesse del negozio di mio padre ha preso una penna e un coltello a seghetto, ha appoggiato il coltello su un foglio da involgere e, passandoci sopra la penna, ha ricalcato il seghetto del coltello, l’ha fatto diverse volte e poi mi ha chiesto “Che cos’è questo?” e io, vedendo queste linee, ho detto “Il mare”. Lei ha fatto degli altri segni, tipo dei semicerchi che si incrociavano, e mi ha chiesto “E questi che cosa sono?” e io “I pesci”. Quindi questa capacità di trasformare in figure vere la fantasia, elaborarla fino a immaginarsela vera evidentemente è nata così. Io, da quel momento, non ho più smesso di disegnare perché mi ero convinto che la penna fosse una sorta di bacchetta magica con la quale potessi fare qualunque cosa.
Da cosa trae ispirazione quando deve creare nuove opere?
La tela bianca è veramente traumatica e quasi ogni volta ti devi far forza perché è quasi una violenza che devi fare tu ad agire, a sporcare in qualche modo questa tela bianca. Io parto sempre con un’idea ben precisa perché magari per un periodo sto parlando di qualcosa e quindi ho un argomento ben chiaro ma quello che poi sarà sulla tela avviene magicamente, come in un discorso: io inizio con un segno e la tela mi risponde, io contesto e la tela mi risponde e piano piano si costruisce. Stiamo parlando di astrattismo per cui non c’è una figura di riferimento se non un equilibrio che io vado a cercare in continuazione sia nella tele che nella vita.
Quindi si può dire che lei non ha subito in mente come sarà il lavoro finito quando inizia un’opera?
Nessuno ce l’ha in mente quello che sarà il lavoro finito quando si parla di astrazione. Se, invece, parliamo di figurazione, dove hai una figura di riferimento, tu sai già dove potresti arrivare. L’astrazione è come nuotare nel mare aperto puoi incontrare anche uno squalo che ti mangia, puoi non vedere il fondale, non vedere l’orizzonte: non puoi prevederlo, è veramente l’oceano. Mentre la figura è una piscina: vedi tutti i bordi, vedi il fondale, ci sono gli scalini per uscire e quindi hai molti più punti di riferimento.
Quanto tempo impiega per realizzare un’opera?
Il tempo è dovuto in parte alle dimensioni ma dipende soprattutto dall’entusiasmo che ci metti a farlo. Per esempio, il mio ultimo lavoro che si intitola “Il collasso”, nel quale parlo della situazione attuale che c’è nel mondo: un mondo che sembra che stia crollando, in cui non abbiamo più certezze, ci sono guerre da tutte le parti, malattie. È un mondo che non sta più funzionando come dovrebbe o come avrebbe dovuto funzionare per cui io ho cercato di fissare con delle immagini questa sensazione di qualcosa che ci sta crollando addosso e per fare questo lavoro ho dovuto lavorare molto velocemente perché il crollo avviene in una rapidità pazzesca: adesso una cosa c’è, il secondo dopo non esiste più, è crollata. Per cui anche l’energia che ci si mette per dipingere questo tipo di cose è funzionale alla durata del quadro.
Ci sono delle figure o dei soggetti che rappresenta spesso nelle sue opere? Se sì, perché?
La mia linea guida è l’equilibrio, è una cosa che ho sempre cercato, e l’ho trovato, stranamente, in un posto dove non c’era assolutamente niente: nel deserto del Kuwait. È un orizzonte completamente piatto dove c’è il cielo e poi c’è la terra, una linea come se fosse il mare. Guardando questo posto, la prima sensazione è stata quella un po’ dell’horror vacui, non c’era niente poi, invece, questo totale nulla si è riempito di cose e ho trovato un equilibrio. Erano due cose grandissime, il cielo e la terra che si incontravano, e l’orizzonte che definiva il limite tra i due. E, anche quando non c’è l’orizzonte, la forma che vado a cercare è quella: la linea.
Nella biografia del suo sito c’è scritto che lei “non dipinge le cose ma il loro modo di comportarsi”, cosa significa?
Per esempio, quando faccio il mare lo dipingo senza il pennello, faccio una campitura, che è il cielo, e la parte che dovrebbe essere quella dell’acqua la faccio col “dripping”, una tecnica la cui traduzione esatta sarebbe “sgocciolamento”: immergo un bastone o un pennello dentro un barattolo di vernice liquida e la faccio gocciolare sul quadro. È un dripping organizzato perché vado dritto con la mano per cui è come se riproducessi proprio il ritmo delle onde. La luce del mare non la dipingo io, la dipinge la luce vera. Uso due colori, uno opaco e uno lucido, il colore lucido si comporta come l’acqua, quindi riflette, mentre il colore opaco si comporta come farebbe il cielo e assorbe la luce. In questo modo io ho dipinto il comportamento, non la forma di un oggetto. Questo avviene anche per altri quadri: uso la pioggia, il vento, la forza di gravità con lo spruzzino, un ventilatore e la pendenza della tela e dipingo il comportamento del liquido su una superfice di ricreare l’effetto che avrebbe in natura.
Se potesse scegliere un solo stile di pittura, quale sceglierebbe e perché?
In pratica l’ho già fatto: l’astrattismo, ho scelto di nuotare nell’oceano anche perché poi una volta che impari a nuotare nell’oceano se ti rinchiudono in una piscina sbatti da tutte le parti. Però ogni tanto torno a disegnare, per esempio, ho fatto una serie che ho chiamato “Nature morte” dove, prendendo in prestito la poetica di Morandi, ho rifatto le nature morte così come le avrebbe fatte lui ma con la plastica. Mi piace molto parlare di ambiente, nella possibilità che può avere un pittore di fare una cosa del genere, ma penso che più ne parliamo meglio è.
Nel corso degli anni, com’è cambiato il suo rapporto con l’arte e con gli stili di pittura?
È un po’ come con una persona che si ama, se la ami veramente negli anni la amerai sempre di più. Ci sono anche delusioni, cose che magari non immaginavi o che non succedono però l’amore è sempre più forte per cui io non potrei veramente vivere senza queste cose che faccio, non le chiamo arte perché mi sembra da presuntuosi, ma mi danno la gioia di vivere.
Avendo avuto la possibilità di viaggiare e farsi conoscere in Italia e all’estero, ha mai pensato di trasferirsi stabilmente fuori dalla Sardegna?
Nel 2001 stavo per andare a vivere a New York perché quando ci sono stato mi era piaciuta tantissimo, era il posto dove mi sono sentito meglio, mi ha conquistato subito. Avevo già diverse mostre programmate negli Stati Uniti, poi c’è stato l’undici settembre ed è stato tutto rimandato. Ho continuato a vivere in Sardegna e sono venuto a vivere a Cagliari nel 2006, questa città mi ha fatto innamorare e ho lasciato perdere l’America. Ho pensato che forse Cagliari sarebbe stato il posto dove avrei continuato la mia vita, poi ho conosciuto la mia attuale moglie e ora sono contentissimo di vivere e lavorare qui. Viaggio molto per il piacere di viaggiare e per le mostre, però il posto dove voglio vivere è la Sardegna: Cagliari e Bosa d’estate.
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