
“Un oggetto analogico, sorprendentemente longevo e affidabile” recita la locandina. Si tratta de “La trappola dei ricordi”, l’opera d’arte interattiva dell’artista Mariano Chelo, presentata oggi al MAP (Movimenti artistici performativi) in Via Garibaldi.
Quando entra al MAP, il visitatore viene accolto da Chelo, l’artista originario di Bosa, che si muove da buon artigiano a proprio agio tra i pennelli e gli arnesi della bottega.
Esposte, troviamo le sue opere, raggruppate in diverse cornici di senso e colore, a segnare il cambio di tematica e scenario. Tra i soggetti rappresentati vi sono paesaggi naturali, con il bianco e il blu del mare e i colori caldi del sole al tramonto, e paesaggi cittadini, con il viola e il nero dei grattacieli e delle strade. E ancora tanti, i giochi di colore e forma, frutto di sperimentazioni surreali e astratte, che si intravedono dipinti sui fondi dei quadri.
Al centro della sala troviamo lei, l’opera protagonista, che s’inserisce in un continuum narrativo preciso, perché come sostiene l’artista: “dipingere è un po’ come scrivere. Se non basta un quadro o una pagina ad esprimere il concetto, ne inizi un altro, fino a quando non sei soddisfatto e puoi mettere un punto”.
Della “trappola dei ricordi”, si nota subito la superficie liscia e lucente del vetro, dipinto dall’interno. E poi un dettaglio che le altre opere non hanno, dei bigliettini di carta arrotolati. Tra il vetro e il fondo dipinto, infatti, vi è uno spazio. Lo spazio dei ricordi.
La metafora è quella della mente umana, più ricordi mettiamo, più dimentichiamo il passato. Così, ognuno può scrivere, arrotolare e inserire il proprio ricordo dentro l’opera, attraverso un foro appena visibile ricavato al di sopra della cornice. “Nel momento in cui lo spettatore inserisce il biglietto, agisce sull’opera stessa modificandola”, commenta Chelo.
I bigliettini accatastati riempiono lo spazio dei ricordi e il fondo del quadro, che rappresenta il passato, viene alla fine completamente coperto e dimenticato.
Alla fragilità del digitale, Mariano Chelo contrappone dunque, la solidità dell’analogico. Un cambio di paradigma a tutti gli effetti. In un mondo in cui la tecnologia sembra essere l’unica certezza per immagazzinare, tracciare e conservare i dati nel tempo, per l’artista è la carta a resistere: “gli scritti hanno più probabilità di durare nel tempo dei dati digitali. Si pensi ai manoscritti antichi o ai dipinti sui muri, chissà se tra 5000 anni esisteranno ancora le fotografie digitali. Ciò che è fisico, lo devi distruggere volontariamente, mentre oggi basta un blackout per perdere tutto”.
Non si tratta della solita demonizzazione del digitale, di cui l’autore fa ricorso nella sue opere attraverso la tecnica della pittura computerizzata. “La tecnologia infatti, a servizio dell’artista può essere un vantaggio, uno strumento per raggiungere i propri obiettivi” commenta Chelo.
Tuttavia, è nella fattualità ontologica della materia, che l’artista riesce a trasmettere ancora quella solidità e spiritualità che resiste nel tempo. Un esempio, il suo, di come è possibile aprirsi al flusso tecnologico con spirito critico, sviluppando quella componente personale e umana, che di certo il digitale non ha.
(Manuela Zoncheddu)
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