
C’è un momento, sempre più breve, in cui chi cerca casa in Sardegna si illude di poterne trovare una. Una finestra di possibilità che dura da ottobre a maggio, l’intervallo concesso tra il turismo di massa e l’industria degli affitti brevi. Poi le serrature cambiano, le key box spuntano come funghi sui portoni, e la casa che sembrava disponibile sparisce dietro un calendario di prenotazioni su Airbnb.
I numeri raccontano una storia brutale: nel solo marzo dello scorso anno, i prezzi degli affitti residenziali in Sardegna sono aumentati dell’11,8 per cento rispetto all’anno precedente. Nella provincia del Sud Sardegna, il costo degli affitti tradizionali è salito del 32 per cento in un anno, mentre in alcune località costiere della provincia di Nuoro i canoni sono quasi quadruplicati. Nel frattempo, Olbia offre ufficialmente 2.800 alloggi per il mercato delle vacanze, cifra che, se fosse verificata senza omissioni, rischierebbe di essere ben più alta.
La matematica è semplice: più case per i turisti, meno per chi vive e lavora qui tutto l’anno. Una logica di mercato che trova giustificazione nella rendita, ma che ignora gli effetti sociali: famiglie sradicate, giovani costretti a lasciare la propria città, lavoratori stagionali ammassati in alloggi di fortuna, studenti universitari costretti a scegliere tra pagare un affitto o poter studiare.
La narrativa è sempre la stessa: la Sardegna vive di turismo, il turismo porta denaro, e dunque qualsiasi regolamentazione è vista come un ostacolo allo sviluppo economico. Ma lo sviluppo per chi? Certamente non per i residenti, non per chi ogni anno è costretto a cercare casa come un clandestino nel proprio territorio.
Il problema non è solo il costo degli affitti, ma la loro disponibilità. A Cagliari, Olbia, Alghero e nelle località costiere più piccole, trovare un contratto di locazione a lungo termine è un’impresa. La risposta standard di proprietari e agenzie è ormai un mantra: da ottobre a maggio. Poi, con l’arrivo dell’estate, gli affitti si impennano e i locatari vengono sfrattati per fare spazio ai turisti. Un esilio programmato, mascherato da esigenza di mercato.
Il fenomeno non si limita al costo degli affitti. In molte città sarde, i quartieri stanno cambiando volto a una velocità preoccupante. La gentrificazione, che nel resto d’Italia è un processo graduale, qui ha il ritmo frenetico dell’alta stagione. Nei centri storici, botteghe e mercati locali lasciano spazio a locali di design, bistrò gourmet e negozi di souvenir di lusso. Gli anziani che un tempo si sedevano sui marciapiedi spariscono, sostituiti da schiere di valigie con le rotelle e turisti in cerca del miglior scorcio da postare su Instagram.
Eppure, l’isola soffre di una contraddizione devastante: la popolazione invecchia, la natalità crolla, e i giovani emigrano in massa per mancanza di prospettive. Un territorio che si svuota dei suoi abitanti e si riempie di visitatori temporanei è destinato a diventare un parco a tema, un museo a cielo aperto gestito da chi non ci vive.
Regolamentare gli affitti brevi non è solo una questione economica. È una questione di giustizia sociale. Il mercato oggi premia la rendita e lascia indietro chi cerca semplicemente una casa. Senza un riequilibrio, la Sardegna diventerà sempre più un’isola da affittare, non da abitare.
Le città si svuotano, i quartieri si spengono, i residenti cedono il passo ai turisti di passaggio. Gli affitti salgono, le case scompaiono, chi vive e lavora qui si trova ogni anno più ai margini.
E mentre l’isola si trasforma, una domanda resta sospesa: chi avrà ancora il diritto di chiamare casa questo posto?
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